“E
la paura di voi (mora’a-kem) e il
terrore di voi (hit-kem) sia
su tutti i viventi della terra” (Genesi
9,2). La lettura più facile, che si impone, vede nel suffisso un genitivo
oggettivo: la paura nei vostri confronti.
Ma è lecito scorgervi, in controluce, anche il genitivo soggettivo: la vostra paura. Proiettate la vostra paura
e il vostro terrore su ogni vita della terra: lo spavento del destarsi
originario e quello del battesimo-diluvio prendano i viventi, gli animali in
particolare, come sostituti; siano sacrificati, il vostro timore e tremore, nel
loro sacrificio, nella loro morte-oblazione, nel loro assassinio sacro. Be-yad-kem nittanu: sono dati nella
vostra mano – in vostro potere; gli altri viventi staranno all’uomo come l’uomo
a Dio. L’ebbrezza del dominio è chiamata ad essere sorso di soma brahmanico: queste mani di sacerdote
pesano come macigni per l’angoscia della bilancia cultuale, in cui il
sacrificato è, en principe, il
sacrificatore stesso (con il suo angst
archetipico: sacrificium Deo spiritus
contribulatus…).
Ipotesi.
L’alchimista attende al nei-dan, alla
trasmutazione del proprio corpo sottile, mentre
prepara, con procedimenti via via corrispondenti, sostanze in grado a) di
operare trasmutazioni e palingenesi nei regni naturali b) di integrare come
rimedi-medicine l’opus diretto
all’estrazione, esaltazione e compimento del corpo spirituale immortale. Ora et labora.
L’occulto
furore di melancholia sradica e inghiotte, nel suo turbine polveroso, ogni
malcerta proprietà, ogni cosa nominata. Sulla sua frontiera tra finito e
infinito, valle di apocalisse senza troni e bilance all’orizzonte, il pensiero
e l’atto della libertà sono sfigurati e contratti: l’io persiste in un incubo
di dominio astratto, tirannide esemplare, e le membrane del suo respiro
sbattono contro pareti di tana franata. L’illusione della continuità celebra il
suo trionfo paradossale in questa ancor più illusoria discontinuità del vivere.
Pregare, dunque lavorare, diventa quasi impossibile: solo la prigione di una
regola, ospedale o cenobio, può far fiorire in questo carcere di vento l’agonia
perfetta, dove il logos separa anima e spirito in una notte di germinazioni
vegetali, profetiche, armonia di contrari. Nella diaspora del mondo, dove è
necessario recitare l’autonomia dell’adulto, ovvero dell’iniziato, le torture
mentali di melancholia sono di rado inclini a maturare nelle doglie del parto
di Minerva – la plane si distende in cicli deformi, che torcono le giunture e i
legamenti della memoria. Anche così il buio irrita il sonno dei semi, ma alla
muta monastica, adolescenza finalmente saziata dal limite, risponde, qui, un lungo e troppo tollerabile
massacro lunare.
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