Voce di
uno che bisbiglia a Elsinore
Non
devo, io, rimettere nei cardini
l’asse
del tempo, o impregnare la polvere
di
succhi verdi, dolcemente intatti
dal
ruggito del mare, distillando
dal
cuore del suo sale; o circoscrivere
nella
liquida tromba zodiacale
della
mia danza il passo incespicante
della
fanciulla, condannato, sacro;
o
fermare l’ucciso con il regolo
cruento,
infallibile, che i vivi
sospendono
tranquilli sull’abisso
tracciando
tabernacoli di sonno;
o
spezzare la madre sul suo sasso,
e
i fratelli sul loro, in armonia
di
transiti stellari, nuova pace;
non
io devo – ogni atto che vedrete
portandovi
il dito sopra il labbro
e
zangolando il grido in fondo al petto,
ogni
ruga sul dorso del mio piombo,
ogni
nuvola alta sulla scena
–
i cappelli, i boccali, le cortine –
ogni
spia d’ogni dio – guardate a lungo
con
i grappoli d’occhi giù nel ventre,
con
gli strappi segreti nella carne
quando
ferve scordata, e riguardate,
perché
farò l’impresa come un morto
incatena
la linfa divagando,
laborioso
e stravolto – e tale impresa,
che
sul pozzo dei mondi insoddisfatti,
impreparati,
per metà di un attimo
(basterà)
l’acquaiolo perda il secchio
per
riprenderlo al volo, sospirando.
Quintessence
of dust
La
polvere che fui, come Alessandro,
dice
il principe, un giorno sarà il tappo
di
un barile di vino. Dopo tanta
sua
gloria e mia infamia, custodire
il
sangue dei miseri in cantina
è
giusto. Ma dì, principe, e anche tu,
bicorne
compagno di catabasi
e
risate, dov’è la quintessenza
della
polvere, il distillato umano,
il
fermento di me, di te, quel sogno
di
corone, stupori, fallimenti,
se
non nel legno, a un soffio dall’argilla,
il
sangue dei miseri pigiato
dai
calcagni del cielo, l’alta infamia
che
consola la terra folgorata?
Dite,
compagni. Su, che il tempo stringe.
Lear
Prego,
signore, slacciami il bottone.
Fallo
tu. Grazie. Un sorcio, un cane, un
cavallo
hanno vita, e lei, una cosa.
Dov’è
quel soffio, sfuggito ai miei lombi?
Mai
tornerà. Mai mai. Il sorcio, il cane,
il
cavallo: vivono lei. Non si
può
dire. Soltanto confessarlo
con
il grido, sulla punta del grido
irrespirabile.
Se il sorcio è vivo –
no,
non è questo. Sono quasi al punto,
sempre
quasi, qui o là. Scoppio di vita.
Ultima resistenza di Giobbe
Non
dalla terra spunta l’io terreno
vacilla
come un equivoco
alto
sullo stupore delle viscere
truffa
il bambino vuoto e luminoso
regna
con lo scettro del dubbio
e
il diadema della perplessità
si
conforta con i riflessi
si
abitua al turbine e al leviatano
attaccato
alla flebo intermittente
dei
retropensieri – si confessa
senza
pudore (gli è permesso
dal
suo immane tesoro di debiti)
si
fida della colpa – come vino
e
splende d’angoscia – come pane
perché
l’io nasce per burlare l’io
per
confutarsi – sospettarsi fumo –
come
la fiamma per fuggire in cielo.
Giobbe
liberato
Prenderai
Leviatano con l’uncino?
No,
non potrai. Ti passerà la voglia.
Sii
Leviatano. Mangialo stasera
prima
del tempo. Non sei tu l’odiato,
il
pessimo, il principe d’orrori?
Diventalo
davvero. Eccoti, mostro.
Nos qui
vivimus
Finché
vivi, respira.
Dopo
non ci sarà
che
un seme canuto
un’angoscia
di sonno concentrata
e
dispersa, cottura di memoria.
Finché
respiri, soffri.
Dopo
non ci sarà
che
una musica d’api
in
celle folgorate
un
salmo delle cellule, un corale
umile,
stanco, di sano mestiere.
Finché
ascolti, riascolta.
Dopo
non ci sarà
che
la gloria dell’erba
e
l’infamia dolcissima
il
disfare e svelare
ed
essere di tutti
mangiato
bevuto penetrato
aspirato
tossito scoreggiato.
Belimah
Come
una musica
così
sottile e quieta
che
penetra i talloni
con
pazienza d’unguento
o
irradia da un punto della mappa
quasi
una nevralgia o un’infezione
precipitata
in puro ritmo, in ombra
come
un filtro, un incanto
coetaneo
delle pietre
che
promette una strana eternità
un
fasto di rovine
un
trono fuori dalle mura
del
Giardino, più antico
ed
essenziale
geloso
del momento insostanziale
in
cui tutto era perduto
eppure
tutto indugiava
nel
sapersi perduto, e lo negava
come
lettere da una foresta
dove
sono impigliati i re del nulla
a
cui il tempo sta appeso
il
rovescio del mondo, non dannato
né
sacrificale, solo persuaso
prima
di tutti i fiat
della
propria purezza abominata
così
mi attira sempre di nuovo
come
una casa, con solida stanchezza
e
un brivido di pace soffocata
A un
ramo d’ulivo
Amico
dalle molte mani
curvo
senza vertigini
alto
senza arroganza
poco
portato alla menzogna
per
l’equilibrio nell’ignoranza
mai
schiavo, forse – ti preserva il verde
cuore
fraterno aperto
l’ombra
più intensa memore del seme –
mai
libero, credo – ogni tuo gioco
è
una nicchia del tempo, è disciplina –
ho
ritegno a confidarti
il
rimedio che porgi
con
le dita palmate
ho
vergogna a confessare
–
non a te, ma alla tazza
povera
in cui lavori –
che
busso al tuo consistere
appagato
di niente
del
niente che illumini e proteggi.
‛Azzah
kammawet ahavah
L’amore
è forte come la morte
come
la depressione
una
vita, figura di una morte,
non
resta, non regge, non resiste
la
beve geloso l’invisibile
e
la memoria, coltivata immagine,
e
il fertile oblio di moltitudini
non
la reggono, non le resistono,
si
limitano a viverla – miseria –
così
la forma amante, la vita
di
un amore non sopravvive all’amore,
sua
morte e sepolcro
debolmente
arranca
sui margini, ronzando
tra
i rifiuti per secoli
ma
forte come l’amore è la morte
la
sua abituale pazzia
così
affine alla piazza, al matrimonio,
alla
polvere consacrata dei giorni,
non
lascia niente, fuorché l’invisibile
gonfio
di nettare come una stanza di dèi
la
morte è amorosa, nulla le sfugge
come
mai nulla sfugge all’amore
Tu
La
volta del carcere è bagnata
dalla
tua voce, che ne stilla lenta.
Né
crepe o porte s’aprono, o finestre:
solo
l’occhio di mostro sigillato
nel
sonno, che alza la pesante palpebra
perché
discenda quotidiano il pane.
Sei
tu presente? Non lo chiede il dubbio.
Tu
sei me nella notte, non per grazia
di
pensieri d’amore condivisi
che
alla tua luce portino il mio buio
o
a questo buio la tua luce: siamo
perduti
al due per l’alta solitudine
del
nostro voto. Ciò che chiedo, in fondo
all’alambicco
che di questa tomba
fa
la tua voce goccia a goccia, è il peso
di
una presenza al muro delle dita,
alle
grate preziose della pelle,
la
tua presenza che, bussato, attende
appesa
al cranio della volta, o scura
su
nel giorno, tra i rami del giardino.
Il
bagno della voce non risponde –
seduce
i pori, sussurra e dimentica,
lascia
alla mente profanata e brutta
il
chiaro peso della sua domanda,
il
peso del respiro che ti interroga.
Deserto
di Nitria, IV sec. d. C.
Su
pietre che aprono il piede
con
muta prontezza geroglifica
e
cieli di polvere gelosi
dei
loro catasterismi lontani
ho
portato al mio maestro
dono
involto di fretta nella pelle
la
faccia e la danza del mio male
più
vecchio di me solo d’un’ora.
Guardava?
Non guardava? Sull’ulivo
amaramente
quieto dei suoi anni
spuntavano
foglie d’attenzione.
“Io
sono” disse infine, e quelle foglie
respirarono
un verde più cupo
e
umido, ciascuna fatta cuore,
“il
muro esterno del tuo male antico,
il
corpo in cui sbatti la tua vela
di
pipistrello appeso a un pentagramma
che
non sai leggere. Sono la tua cella,
l’ottusità
improvvisa del tuo voto,
la
prigione che non sa stancarsi
di
raddoppiare i lacci della nascita.
Non
hai nulla da fare. Resta dentro,
mimetizzati
come l’animale
più
sonnolento, non scansare il volto
della
pietra: gelido e fedele
insisti,
ti sarà specchio.
Altro
non so, non posso dare altro
che
pietra al figlio che mi chiede pane”.
Alzai
la fronte dal tritume bianco
come
d’ossa cadute dal mio cranio
e
a lungo pestate. Barcollando
con
peso e statura di cammello,
voltai
la schiena al padre, confermato
e
deluso, com’è giusto. Notte
era
da tempo ovunque. Ancora il taglio
di
sassi invisibili, e mani di sabbia
portate
da una brezza senza voce.
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