Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 13 settembre 2014

Undici ricognizioni intorno alla selva




Voce di uno che bisbiglia a Elsinore

Non devo, io, rimettere nei cardini
l’asse del tempo, o impregnare la polvere
di succhi verdi, dolcemente intatti
dal ruggito del mare, distillando
dal cuore del suo sale; o circoscrivere
nella liquida tromba zodiacale
della mia danza il passo incespicante
della fanciulla, condannato, sacro;
o fermare l’ucciso con il regolo
cruento, infallibile, che i vivi
sospendono tranquilli sull’abisso
tracciando tabernacoli di sonno;
o spezzare la madre sul suo sasso,
e i fratelli sul loro, in armonia
di transiti stellari, nuova pace;
non io devo – ogni atto che vedrete
portandovi il dito sopra il labbro
e zangolando il grido in fondo al petto,
ogni ruga sul dorso del mio piombo,
ogni nuvola alta sulla scena
– i cappelli, i boccali, le cortine –
ogni spia d’ogni dio – guardate a lungo
con i grappoli d’occhi giù nel ventre,
con gli strappi segreti nella carne
quando ferve scordata, e riguardate,
perché farò l’impresa come un morto
incatena la linfa divagando,
laborioso e stravolto – e tale impresa,
che sul pozzo dei mondi insoddisfatti,
impreparati, per metà di un attimo
(basterà) l’acquaiolo perda il secchio
per riprenderlo al volo, sospirando.


Quintessence of dust

La polvere che fui, come Alessandro,
dice il principe, un giorno sarà il tappo
di un barile di vino. Dopo tanta
sua gloria e mia infamia, custodire
il sangue dei miseri in cantina
è giusto. Ma dì, principe, e anche tu,
bicorne compagno di catabasi
e risate, dov’è la quintessenza
della polvere, il distillato umano,
il fermento di me, di te, quel sogno
di corone, stupori, fallimenti,
se non nel legno, a un soffio dall’argilla,
il sangue dei miseri pigiato
dai calcagni del cielo, l’alta infamia
che consola la terra folgorata?
Dite, compagni. Su, che il tempo stringe.


Lear

Prego, signore, slacciami il bottone.
Fallo tu. Grazie. Un sorcio, un cane, un
cavallo hanno vita, e lei, una cosa.
Dov’è quel soffio, sfuggito ai miei lombi?
Mai tornerà. Mai mai. Il sorcio, il cane,
il cavallo: vivono lei. Non si
può dire. Soltanto confessarlo
con il grido, sulla punta del grido
irrespirabile. Se il sorcio è vivo –
no, non è questo. Sono quasi al punto,
sempre quasi, qui o là. Scoppio di vita.

Ultima resistenza di Giobbe

Non dalla terra spunta l’io terreno
vacilla come un equivoco
alto sullo stupore delle viscere
truffa il bambino vuoto e luminoso
regna con lo scettro del dubbio
e il diadema della perplessità
si conforta con i riflessi
si abitua al turbine e al leviatano
attaccato alla flebo intermittente
dei retropensieri – si confessa
senza pudore (gli è permesso
dal suo immane tesoro di debiti)
si fida della colpa – come vino
e splende d’angoscia – come pane
perché l’io nasce per burlare l’io
per confutarsi – sospettarsi fumo –
come la fiamma per fuggire in cielo. 

Giobbe liberato

Prenderai Leviatano con l’uncino?
No, non potrai. Ti passerà la voglia.
Sii Leviatano. Mangialo stasera
prima del tempo. Non sei tu l’odiato,
il pessimo, il principe d’orrori?
Diventalo davvero. Eccoti, mostro.


Nos qui vivimus

Finché vivi, respira.
Dopo non ci sarà
che un seme canuto
un’angoscia di sonno concentrata
e dispersa, cottura di memoria.

Finché respiri, soffri.
Dopo non ci sarà
che una musica d’api
in celle folgorate
un salmo delle cellule, un corale
umile, stanco, di sano mestiere.

Finché ascolti, riascolta.
Dopo non ci sarà
che la gloria dell’erba
e l’infamia dolcissima
il disfare e svelare
ed essere di tutti
mangiato bevuto penetrato
aspirato tossito scoreggiato.


Belimah

Come una musica
così sottile e quieta
che penetra i talloni
con pazienza d’unguento
o irradia da un punto della mappa
quasi una nevralgia o un’infezione
precipitata in puro ritmo, in ombra
come un filtro, un incanto
coetaneo delle pietre
che promette una strana eternità
un fasto di rovine
un trono fuori dalle mura
del Giardino, più antico
ed essenziale
geloso del momento insostanziale
in cui tutto era perduto
eppure tutto indugiava
nel sapersi perduto, e lo negava
come lettere da una foresta
dove sono impigliati i re del nulla
a cui il tempo sta appeso
il rovescio del mondo, non dannato
né sacrificale, solo persuaso
prima di tutti i fiat
della propria purezza abominata
così mi attira sempre di nuovo
come una casa, con solida stanchezza
e un brivido di pace soffocata


A un ramo d’ulivo

Amico dalle molte mani
curvo senza vertigini
alto senza arroganza
poco portato alla menzogna
per l’equilibrio nell’ignoranza
mai schiavo, forse – ti preserva il verde
cuore fraterno aperto
l’ombra più intensa memore del seme –
mai libero, credo – ogni tuo gioco
è una nicchia del tempo, è disciplina –
ho ritegno a confidarti
il rimedio che porgi
con le dita palmate
ho vergogna a confessare
– non a te, ma alla tazza
povera in cui lavori –
che busso al tuo consistere
appagato di niente
del niente che illumini e proteggi.


‛Azzah kammawet ahavah

L’amore è forte come la morte
come la depressione
una vita, figura di una morte,
non resta, non regge, non resiste
la beve geloso l’invisibile
e la memoria, coltivata immagine,
e il fertile oblio di moltitudini
non la reggono, non le resistono,
si limitano a viverla – miseria –
così la forma amante, la vita
di un amore non sopravvive all’amore,
sua morte e sepolcro
                                   debolmente
arranca sui margini, ronzando
tra i rifiuti per secoli
ma forte come l’amore è la morte
la sua abituale pazzia
così affine alla piazza, al matrimonio,
alla polvere consacrata dei giorni,
non lascia niente, fuorché l’invisibile
gonfio di nettare come una stanza di dèi
la morte è amorosa, nulla le sfugge
come mai nulla sfugge all’amore



Tu

La volta del carcere è bagnata
dalla tua voce, che ne stilla lenta.
Né crepe o porte s’aprono, o finestre:
solo l’occhio di mostro sigillato
nel sonno, che alza la pesante palpebra
perché discenda quotidiano il pane.
Sei tu presente? Non lo chiede il dubbio.
Tu sei me nella notte, non per grazia
di pensieri d’amore condivisi
che alla tua luce portino il mio buio
o a questo buio la tua luce: siamo
perduti al due per l’alta solitudine
del nostro voto. Ciò che chiedo, in fondo
all’alambicco che di questa tomba
fa la tua voce goccia a goccia, è il peso
di una presenza al muro delle dita,
alle grate preziose della pelle,
la tua presenza che, bussato, attende
appesa al cranio della volta, o scura
su nel giorno, tra i rami del giardino.
Il bagno della voce non risponde –
seduce i pori, sussurra e dimentica,
lascia alla mente profanata e brutta
il chiaro peso della sua domanda,
il peso del respiro che ti interroga.


Deserto di Nitria, IV sec. d. C.

Su pietre che aprono il piede
con muta prontezza geroglifica
e cieli di polvere gelosi
dei loro catasterismi lontani
ho portato al mio maestro
dono involto di fretta nella pelle
la faccia e la danza del mio male
più vecchio di me solo d’un’ora.
Guardava? Non guardava? Sull’ulivo
amaramente quieto dei suoi anni
spuntavano foglie d’attenzione.
“Io sono” disse infine, e quelle foglie
respirarono un verde più cupo
e umido, ciascuna fatta cuore,
“il muro esterno del tuo male antico,
il corpo in cui sbatti la tua vela
di pipistrello appeso a un pentagramma
che non sai leggere. Sono la tua cella,
l’ottusità improvvisa del tuo voto,
la prigione che non sa stancarsi
di raddoppiare i lacci della nascita.
Non hai nulla da fare. Resta dentro,
mimetizzati come l’animale
più sonnolento, non scansare il volto
della pietra: gelido e fedele
insisti, ti sarà specchio.
Altro non so, non posso dare altro
che pietra al figlio che mi chiede pane”.
Alzai la fronte dal tritume bianco
come d’ossa cadute dal mio cranio
e a lungo pestate. Barcollando
con peso e statura di cammello,
voltai la schiena al padre, confermato
e deluso, com’è giusto. Notte
era da tempo ovunque. Ancora il taglio
di sassi invisibili, e mani di sabbia
portate da una brezza senza voce. 


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