Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 23 maggio 2011

Prova di carmen arcaico per fare un incantesimo alla pubblicità


Giambi, su, zampillate in disordine
dal limo del cuore, rendiamo palpabile
lo spettro gentile, che fa mostra
di non aver odore. La sentite
col vostro fiuto di pazzia, coi denti
arrotati alla carne, la fanciulla
che dedica compìta, transverberata latria
al cioccolatino su cui il mondo s’incardina,
centro attrattivo, scura grazia trepida,
lo vedete, tendendovi, l’efebo
che gioca assorto il suo destino, mirandolo
nell’icona geniale, tutta soffio
e mitigata furia, di una nuova
automobile? È un lavoro duro,
giambetti miei, ma alzatevi, e danzate.
Su, su, non vi appaghi l’indignatio
di un istante. Fanciulla, efebo, musica
di maghi accorti, ma non troppo: ammetto
che sembra poco interessante. E allora
cosa faremo, amici, di quel padre
dal sorriso maturo, del vecchino
ammorbidito dal patire, della
bambina triste e presaga, di quanti
prolungano nell’occhio della carne
la misteriosa visione? Zampillate,
giambi. Ecco arriva l’odore
del tenero fantasma. Raccoglietelo
da quei corpi, annusatelo nel vecchio
saggio umiliato, nella bimba fremente,
nel gesto ordinato del padre, prendetelo
su con voi, e cantategli il carme.
Uh-uh-uh-uh, vediamo che succede.

-1 Luglio 2005-

domenica 22 maggio 2011

Nudità/smembramento


Caro * * *,

capisco la tua nausea davanti ai faccioni postrepubblicani e ai motti sempre più demenziali, ma tutto sommato è l’aspetto più stupido e innocente del raggiro, come il disvelarsi di culi e il tonitruare di peti nelle farse immutabili. Le campagne elettorali sono ridicole dai tempi di Pericle e Aristofane, la loro parentela col komos, col fondo dionisiaco e sbertucciante della democrazia è originaria, come in tutte le cose noi ci segnaliamo solo per la minore vitalità (connessa a una infinitamente minore trasparenza rituale) e i più estenuati ricami sulle foglie di fico. Anzi, persino su questo ho qualche dubbio: oggi il bambino nella folla non deve urlare che il re è nudo, il potere di questi attorucoli strapagati e resi lievi (lievissimi) dal clima di un torbido e lungo declino è uno dei più nudi che ci siano mai stati, perché rimanda così scopertamente alla propria essenza teatrale (nudo però non vuol dire semplice, il potere è sempre un mercurio, un proteo, non lo puoi definire, più è puro e meno è definibile). Che cosa dovrebbe urlare il candido puer davanti a questo corteo di cretini? Tutto svela e quasi ostende l’interdipendenza, come in ogni tempo di dissoluzione l’assenza di forme incarnate suscita l’inquietudine e la sete di vecchie care certezze, ma è solo un breve indugio, la fisionomia della società e della cultura è profondamente meticcia, fluida, come del resto hanno visto in molti: nella fluidità del transito, il puer forse farebbe bene a non guardare, a custodire lo sguardo astenendosi (cieco asino con grandi orecchie veggenti) dal clamoroso ma sempre più fiacco show. I cosiddetti potenti sono sempre poveri pupazzi, poveri cristi nel senso più (apocalitticamente) letterale: teste di turco, pietre sataniche da lapidare, fumo negli occhi di tutti. E oggi lo sono più che in passato: bisogna averne compassione, e odiarli con terribile misura.
Non voglio contagiarti troppo con le mie riflessioni di questo periodo: mi limiterò a qualche cenno. Circa venti anni fa lessi di una foto che aveva ispirato a Bataille le sue idee sull’eccesso sacrificale come origine della comunità umana: un’istantanea che documentava l’ultima applicazione, nel 1905, in Cina, del supplizio del ling-chi, o “taglio in diecimila pezzi”. Al condannato venivano asportati lembi di carne e organi non vitali per almeno tre giorni di seguito, rigorosamente in pubblico, finché il Burattinaio non si decideva, dopo aver lasciato il campo forse un po’ troppo a lungo alla burocratica dilazione del boia, a tagliare i fili del pupazzo straziato. Ci fantasticai su per qualche giorno, poi me ne scordai. Dieci anni fa, finalmente, contemplai la foto, persi un mese e mezzo di sonno – e la ferita ancora non si è cicatrizzata. Ovviamente, come suggerisce la forma, si trattava di una pena comminata ai sovversivi, ai traditori: l’Unità antica, sempre sul filo dell’idolatria, lacerava per contrappasso i suoi laceratori. Così i regicidi francesi Ravaillac e Damiens, delle cui morti incredibilmente teatrali avevo letto, restandone parimenti intronato, durante l’adolescenza: giorni di ustioni, attanagliamenti, mutilazioni, poi un maldestro squartamento con cavalli e asce sulla pubblica piazza istupidita dalla festa di urla e di sangue. L’illuminismo alquanto parruccone dei miei quindici anni trovava in quegli spettacoli una giustificazione indiscutibile: “Almeno oggi non sbrindelliamo per strada i Damiens!”. Poi l’infittirsi e il complicarsi delle meditazioni, e Kafka e Simone Weil, e un pochino anche Foucault (davvero buono il suo Sorvegliare e punire, che appunto si apre con la cronaca d’epoca dell’esecuzione di quel povero pazzoide che inferse un innocuo colpetto di temperino al petto di Luigi XV le Bien Aimée). Oggi il misterioso e terribile filo mi guida in altri meandri del labirinto, in altri angoli sacri ed esecrandi del diritto penale – ma per ora basta, se la cosa ti interessa riprenderò il discorso nella prossima lettera. (Solo una raccomandazione: ti sconsiglio di cercare quella foto).

A presto,

Daniele

lunedì 16 maggio 2011

Piccola ode al matrimonio nel XXI secolo


La luce del matrimonio
è discesa nelle cripte,
s’è acconciata ai sottosuoli
della città che sogna
senza petto né mura,
le è piaciuto l’umore dei morti,
il salnitro dei santi, la poesia
delle fredde officine dei cristiani.

Il chiarore delle nozze
contratto e iniziazione
ha rimesso le dita insalivate
sui codici, e figure nel blasone.

Lo avete chiesto ai ragazzi? Vi diranno
un enigma platonico, che uccide,
perché gli dèi sono calcolo e furia.
Il Dio di Abramo e di Sara
(e di Osea e della puttana) non porge
indovinelli e cappi: è molto peggio,
come sanno gli sposi.

Sono più matti, loro due, del primo
tarocco, più assurdi di un suicida,
sono ragazzi perbene, loro, facce
e corpi sacrificali. Cercateli
nelle cripte nitrose, negli azoti
insani e trionfali delle tombe,
nelle catacombe liete da ammattire,
nei sottosuoli malfamati dei santi.
Cercateli nell’orrore e nella grazia
della poesia, nelle miniere fumanti
di cancro e medicina. Il matrimonio
è la tomba dell’amore.

- 6 Agosto 2004, Trasfigurazione (e 59° di Hiroshima) –

Da Adamo vegetariano a Noè carnivoro: il cibo nei primi capitoli della Genesi


Il seguente articolo di Daniele Capuano è stato pubblicato dalla rivista Appunti di viaggio, n. 84 (maggio-giugno 2006).

Il più grande pericolo dell’esistenza è che l’uomo si nutre solo di anime.
Detto inuit

Nutrirsi, è aver bisogno del nutrimento. Al pari della necessità di respirare, la fame è il segno massimo del bisogno, della dipendenza della creatura: ma in modo meno immediato, più indiretto, più relazionale. Il cibo sarebbe quindi la tangibile prova dell’irriducibile povertà della creatura di fronte alla pienezza del suo Creatore: noi, qui in basso, contingenti, impermanenti; Lui, più in alto di ogni altezza, assoluto e necessario, indipendente da ogni cosa proprio perché ogni cosa dipende da Lui. Ma la Rivelazione ci insegna, ora velatamente ora in modo chiarissimo e sfolgorante, che l’essenza di Dio è la Misericordia: e la Misericordia è interdipendenza fra creatura e Creatore, tra Signore e servo; il sufismo la chiama “segreto del rapporto Signore-servo”, sirr ar-rububiyya. Noi, i contingenti, non possiamo esistere né essere senza Chi ci ha donato l’essere; ma è altrettanto vero che Dio non può manifestarsi, ed essere quindi Se stesso, senza la visibile e misteriosa fragilità del Creato, che è bellezza e nullità insieme. L’affermazione iniziale va quindi ripresa: è come un semicerchio che attende di chiudersi, di formare un anello perfetto, un nodo durevole, un vincolo indissolubile. Dio nutre le creature, opera delle Sue mani, con la propria Shekinah, cioè con la propria Presenza o Immanenza diffusa, disseminata nel mondo: le nutre di Sé. Come ha detto Meister Eckhart, se sapessimo realmente che Dio è dappertutto, prenderemmo l’Eucarestia anche mangiando il cibo di ogni giorno. Ma non solo Dio offre Se stesso nel nutrimento: perché il circolo della Misericordia sia sigillato, dobbiamo ricordare che, nella religiosità arcaica e tradizionale, anche l’uomo nutre Dio, e lo fa attraverso il sacrificio, in particolare attraverso la sua forma più alta, l’offerta di lode – la preghiera.
Poiché intendiamo esaminare brevementi alcuni passi della Genesi, il primo libro delle Scritture ebraiche e cristiane, possiamo iniziare giocando un po’ con le parole, secondo l’insegnamento rabbinico. In ebraico “mangiare” si dice akàl, parola composta, come quasi tutti i verbi semitici, di tre consonanti (l’alfabeto semitico non prevede la scrittura delle vocali): alef-kaf-lamed. La alef, prima lettera dell’alfabeto, è il simbolo dell’Unità divina: insieme alla lamed, la terza consonante radicale, forma uno dei più importanti nomi di Dio, El (1). La seconda radicale, kaf, è il geroglifico della mano aperta (kaf significa la mano concava, che prende o tiene qualcosa). Abbiamo quindi El, Dio, che racchiude in Sé una mano. Ma la kaf, scritta diversamente, è anche il suffisso della seconda persona singolare, “Tu”. Sembra che l’atto del mangiare implichi due cose, che sono una: che Dio apra la Sua mano; e che, mangiando, si possa entrare in rapporto col Tu divino. Mangiare è di per sé culto, religione: non lo diventa nella storia; appartiene alla sua essenza, secondo il disegno di Dio.
Il disegno di Dio, così com’è nel principio (bereshith, titolo ebraico della Genesi), fa dell’uomo il dominatore del mondo, ma un dominatore sacerdotale e regale, a Sua immagine e somiglianza. Creato nel sesto giorno, l’uomo nomina le cose perché ne conosce intimamente gli archetipi: e li conosce perché li reca in se stesso. Ripeterà Pico della Mirandola molti secoli dopo: l’uomo è mediatore universale, copula mundi, perché non si identifica con un solo archetipo come ciascuna delle altre creature, ma tutti li assume nel suo rapporto con la Totalità, e con Dio. Secondo le parole di Elohim, l’uomo, Adamo, tratto dalla terra (adamàh), dovrà mangiare ciò che la terra spontaneamente gli offre: “Ecco, vi ho dato ogna sorta di vegetale che produce seme che è sulla faccia di tutta la terra, ed ogni albero in cui ci sia frutto che produce seme sia per voi nutrimento (lakem yihyèh leaklà)” (1,29). A tutti gli altri animali in cui c’è il soffio della vita (nefesh chayyà), Elohim dà come cibo, senza rivolger loro la parola alla seconda persona, “i vegetali verdeggianti” (1,30). La differenza è sottile ed importante: l’alimentazione di Adamo sarà vegetariana come quella di tutte le altre bestie, ma avrà un rapporto speciale e particolare con i semi. Il testo dice due volte zorea‛ zara‛, piante e frutti che “producono seme” (letteralmente “che seminano seme”): l’uomo, che contiene in sé i nomi e i “semi” di tutte le cose, accoglie in sé la potenza seminale della terra, e il suo cibo per antonomasia sarà, quando passerà dal mangiar crudo al mangiar cotto, il pane, fatto di sola semenza tritata (sacrificata) e impastata con l’acqua. Ma perché gli animali, appena usciti dalle mani di Dio, sono vegetariani?
La creazione, nell’istante della sua novità assoluta, in principio, è molto buona e molto bella: vita pura e luminosa, somiglia ad un unico, grande vegetale, raccolto in se stesso, nella propria perfezione (radicato), ma anche offerto fuori di sé, donato (fruttificante). Inutile cercare nascondigli sentimentali, in un testo di terribile chiaroveggenza come la Bibbia: sin dal principio, se l’uno mangia, l’altro deve morire: nutrimento e morte, nutrimento e sacrificio sono essenzialmente e perpetuamente congiunti. Ma la morte del vegetale, sembrano dirci questi versetti della Genesi, è appunto il sacrificio primordiale: appartiene all’età dell’oro, a ciò che l’induismo chiama hiranyagarbha, l’“embrione aureo” e luminoso dell’essere, intriso di sattva, cioè di trasparenza essenziale, armoniosa, non-violenta. Il cibo di Adamo e delle altre bestie, che ancora sono in comunità di vita con lui, è ciò che la terra offre liberamente: il verde e ingenuo vegetale, che, in virtù delle sue salde radici, non ha un’individualità distinta come l’animale (2), si manifesta e dona al mondo, ma non manifesta la sofferenza delle proprie ferite e della propria morte. Adamo potrà e dovrà mangiarlo, ma conservandone il seme, e quindi la continuità di esistenza, così come conserva e custodisce nella propria anima e nella propria mente i semi (nomi) delle cose: per questo (2,5.15 etc.) Adamo è chiamato da Dio, che lo ha appena creato, ad essere agricoltore, a lavorare la terra (adamah) da cui è stato tratto. La Scrittura usa qui uno dei suoi verbi più pregnanti: ‛avàd, servire, compiere un lavoro, prestare un culto; l’uomo è e sarà per sempre un ‛eved, un servo bisognoso che coltiva la terra e il proprio rapporto con Dio. Il latino non è meno sottile: colere vuol dire coltivare ed adorare; coltura, cultura e culto sono mirabilmente fusi nel disegno originario dell’uomo.
Il peccato di Adamo è una rottura dell’ordine universale: l’embrione d’oro, l’uovo luminoso si incrina e si apre; nasce, dolorosamente, la storia, cioè l’unica cosa che tutti ricordiamo. L’uomo, tratto dalla terra, doveva custodirla e servirla, sollecitarne la spontaneità con la religiosa semplicità del culto: ma d’ora in poi la terra, coinvolta nella maledizione dell’uomo, opporrà resistenza all’armonia; il servizio di Adamo sarà sempre di più schiavitù. Per la prima volta viene citato il pane (lechem), accompagnato dal “sudore del volto” (3,19): il fuoco che serve a cuocerlo sembra qui, implicitamente, un altro marchio della vita di pena posteriore al peccato. Il segno estremo della Caduta di Adamo e della donna, Eva, saranno le tuniche di pelle (kotnoth ‛or, 3,21) che Dio stesso fabbrica per velare la loro nudità: come in un travestimento rituale, i due si identificano più intimamente con l’animale, dal quale prima li separava la funzione sacerdotale e mediatrice. Osserviamo che, per preparare queste pelli, Dio ha dovuto probabilmente togliere la vita ad una o più bestie.
Con Caino e Abele entriamo ancor più a fondo nelle tragiche pieghe della storia umana. Caino, il contadino, il “servitore della terra”, è un misuratore di spazio che adora Dio offrendoGli i frutti del suo lavoro; Abele, il pastore nomade, offre invece i primogeniti del suo gregge e il loro grasso (Gen 4,4). Uccide cioè alcuni degli animali che alleva per sacrificarli a YHWH: ma non è detto, ancora, se li mangia anche lui, se partecipa alla consumazione del sacrificio. “E YHWH guardò Abele e la sua offerta, ma non guardò Caino e la sua offerta”: il sacrificio animale sembra più gradito a Dio del sacrificio vegetale. Perché? Cos’è cambiato? È cambiato tutto, in certo modo, anche se l’essenza del sacrificio è immutabile. L’immolazione dell’animale è “guardata” da Dio perché il pastore uccide, ancor prima della bestia, il proprio affetto per lei: l’animale-vittima viene offerto a Dio, attraverso la morte, proprio in quanto lungamente amato e curato. Soffre il sacrificatore e soffre, visibilmente e udibilmente, anche il sacrificato, perché l’individualità dell’animale è più vicina all’uomo, più determinata di quella del vegetale. La sofferenza del vegetale esiste, ma è muta, silenziosa: dà meno consapevolezza del significato del rito a chi lo compie; forse è anche per questo che i frutti di Caino vengono apprezzati di meno dell’altare di Abele, insanguinato e coperto di grasso.
Seguendo il testo biblico, il passaggio definitivo all’alimentazione carnea è concomitante ad un altro tragico passaggio, una morte simbolica del mondo intero: il Diluvio. Dopo questa terribile espiazione, Noè, nuovo Adamo, riceve da Dio parole che ricordano quelle rivolte al primo uomo nel sesto giorno, ma che sono articolate in benedizioni e proibizioni, annunci e precetti. Il Patto immediato e quasi implicito degli inizi ha bisogno di essere sigillato in modo molteplice. Proviamo a leggere i primi versetti del capitolo 9.
“Fruttificate e moltiplicatevi”: le stesse parole di 1,28; ma il dominio promesso ad Adamo sembra ora sfregiato da una smorfia di spavento. “Il timore di voi e il terrore di voi sia su tutti i viventi della terra e su tutti gli alati del cielo. Tutto ciò che striscia sulla terra e tutti i pesci del mare siano nella vostra mano”. Se la prima parola, morà, è applicata anche al timore reverenziale, la seconda, chit, indica la lacerazione, lo sconquasso interiore di fronte a ciò che fa paura. Come l’uomo ha timore di Dio, così gli altri animali avranno timore (e spavento) dell’uomo. Va detto che anche nel rapporto con Dio il timore ha diversi livelli: c’è un timore di Dio per così dire pedagogico, simile alla paura di ciò che non si conosce, all’ansia per la punizione; ma c’è anche un timore che è stupore radicale ed incancellabile, percezione del mistero, senso di quella distanza fra creatura e Creatore su cui si fonda la relazione. L’uomo resta, per vocazione, un mediatore cosmico, un sacerdote dell’universo, come Adamo: ma il terrore-spavento che la sua presenza infonde in tutti gli animali è una conseguenza del peccato originale; l’altro timore, invece, è la distinzione stessa dell’animale dall’uomo (animale unico ed impensabile), in cui l’uomo può riconoscere la propria fragilità creaturale al cospetto di Dio. Le bestie sono “nella vostra mano (beyedkem)”: un’autorità-potere che è difficile preservare dall’arbitrio.
Ecco ora i versetti che più ci interessano: “Ogni animale strisciante, che sia vivo, sia per voi nutrimento. Io vi do tutto, come vi ho dato i vegetali verdeggianti (cfr 1,30). Solo, non mangerete una carne nel cui soffio vitale (benafshò) ci sia ancora il suo sangue (damò)” (3-4). Partiamo dal terzo versetto: all’uomo è consentito di essere tanto carnivoro quanto vegetariano. Può partecipare sia della dieta degli animali erbivori che degli animali carnivori, che però, come prede e predatori, sono in perpetuo conflitto tra di loro. L’animale erbivoro comunica con la silenziosa vita vegetale attraverso il ritmo della sua manducazione e della sua digestione, dalla quale l’uomo ha tratto le metafore della propria interiorità, della propria pratica spirituale: meditare, ruminare sono parole che rimandano alla lenta e paziente concentrazione delle bestie. Ma l’animale carnivoro uccide e mangia l’erbivoro (o, più raramente, un altro carnivoro) per entrare in contatto e in comunione immediata con l’animalità stessa, che è offerta e negata nel rito violento della caccia: la vita indivisa della natura viene donata al carnivoro come vittima recalcitrante, urlante, sofferente. Il trauma del peccato originale è qui visibile con chiarezza accecante. Ma a Noè, cui viene consentita la carne animale, non viene consentito il suo sangue: qui sono possibili due livelli di lettura. Infatti, secondo la futura tradizione ebraica, abbiamo ora il primo precetto della kesherùth, la regola religiosa applicata all’alimentazione: il sangue (dam), che coincide con il soffio vitale, con la vita animale (nefesh), appartiene a Dio che l’ha dato, e a Lui va offerto prima di mangiare la bestia immolata. Ma le norme consegnate a Noè sono considerate valide per tutti i popoli, in quanto sono tutti discendenti dei sopravvissuti al Diluvio, alla rigorosa Giustizia divina. Non “mangiare una carne nel cui soffio vitale ci sia ancora il suo sangue” significa anche uccidere l’animale prima di cibarsene: non mutilarlo, non seviziarlo (ad esempio amputandone un arto) per saziare la propria fame; ma probabilmente allude anche ai culti orgiastici diffusi in quasi tutte le civiltà arcaiche, le cacce rituali in cui si imitavano il predatore divino e la sua preda insieme. Ne abbiamo un nitido e forte esempio nella Grecia antica, con i riti di Dioniso: l’animale veniva inseguito e sbranato ancor vivo (sparagmòs, lacerazione); sperimentando l’identificazione sia con lui che con il carnivoro cacciatore, si gustava quella che Euripide chiama la “gioia di mangiare crudo (omophagon charin)”. Ma a Noè (e, in lui, a tutte le genti della terra, ebrei e pagani) è vietata proprio questa “gioia”: egli dovrà uccidere e mangiare l’animale, ma non come il carnivoro dionisiaco, semidivino (l’immediatezza dei denti affondati nel collo della preda); dovrà immolarlo ritualmente (con la mediazione di un oggetto sacro, un coltello), sacrificandolo a Dio, e dissanguarlo, ribadendo così la propria difficile vocazione di sacerdote del mondo, assegnata ad Adamo e poi sfigurata dal peccato.
In realtà, uccidendo l’animale amato, con il quale c’è stata condivisione di vita e al quale si sono dedicate pazienza, attenzione ed energie, l’uomo-sacerdote ripete il suo peccato originario, la lacerazione dell’armonia cosmica, dell’ordine di luminosa e pacifica interdipendenza: ma lo fa nel contesto tragico ed esaltante del rito, cioè della santità, che in ebraico biblico è qodesh ed indica la separazione di un atto dall’ordinarietà e dalla falsa immediatezza. L’atto santissimo per eccellenza, il sacrificio dell’animale, riflette dunque l’atto orribile ed esecrando di Adamo, di Caino, ma in modo capovolto: ciò che ha causato la discesa, accettato nello spazio e nel tempo del culto divino, è il principio dell’ascesa, del ritorno, della ricostituzione dell’ordine.
Come si vede, nelle scarne parole del patto noachide è già ben articolata la logica del sacrificio e, dal punto di vista ebraico, vi sono implicitamente presenti i principi della purità alimentare (la kesherùth) e della macellazione rituale (la shechità). La prospettiva sacrificale, con la sua tragica paradossalità, è anche nel cuore e nelle viscere della Rivelazione cristiana: come il peccato originale si ripete, invertendo il proprio segno, nell’atto santo e terribile dell’immolazione, così è, nella dottrina cristiana, beatrix culpa, colpa e disastro che ha portato al mondo una salvezza e una beatitudine ben più grande di quella sperimentata nell’Eden, dove regnava l’immediatezza, e Adamo ed Eva non avevano ancora “aperto gli occhi” sul male e la complessità. Gesù è stato colpevolmente, orribilmente ucciso, eppure il suo è stato il sacrificio perfetto, perché la sofferenza comune a tutte le vittime della storia si univa, in lui, alla piena volontarietà, all’accettazione irrevocabile fin dall’eternità. In questo il sacrificio dell’uomo è diverso da quello dell’animale, almeno secondo la lettura biblica: infatti, perché il sacrificio sacerdotale sia valido, si postula non la volontarietà della vittima, ma quella di Dio che l’ha creata e quindi staccata da sé, e quella del sacerdote che fa la volontà di Dio. Sappiamo, però, che nelle culture arcaiche la vittima animale, l’animale ucciso e mangiato da una comunità religiosa è sentito e pensato come un redentore, come un essere divino che, pur soffrendo, volentieri si dona all’uomo: soprattutto nei popoli di cacciatori, dove la necessità dell’espiazione e della comprensione è ancor più forte ed urgente (3). Ad ogni modo, sia nei popoli arcaici che nell’uomo biblico, la logica del sacrificio, alla lunga, proprio a causa della sua intima complessità si rivela un pericolo per la coscienza religiosa. Le vertigini che dà il sacrificio, ripetendosi secondo i ritmi regolari del calendario cultuale, sono soffocate dall’insensibilità: il tempo santo, “separato” dell’immolazione diventa, nello srolotarsi dei giorni, il movimento inesorabile di una macchina. Per questo Dio dice così spesso, per bocca dei suoi profeti, che il grasso e il sangue degli altari lo disgustano: come nel caso di Abramo, il più evidente e terribile, Egli non pensava alle colonne di fumo denso ed acre di un olocausto, ad un corpo di vittima accuratamente squartato, ma al sacrificio della volontà dell’uomo, all’offerta di sé che il sacrificatore fa nella persona della vittima – alla morte-di-sé che è preghiera, lode, gratitudine, invisibile e più reale del sangue versato.
Eppure le parole di Dio a Noè non vanno dimenticate. Anche se il sacrificio è provvisorio, come tutto l’ordine sacro (e come il mondo stesso, del resto), al di fuori della sua tragicità e della sua ritualità, la macellazione di animali diventa assassinio puro e semplice: e un assassinio, per di più, aggravato dalle sue attenuanti, che sono la torpida inconsapevolezza, l’ansiosa uniformità delle masse moderne di fronte al silenzio dei mattatoi industriali – templi senza eco di parola divina, risuonanti solo del grido di quegli animali che i nostri antichi padri, almeno, amavano, soffrendo realmente e intimamente nel toglier loro la vita per nutrire e prolungare la propria.
E anche quando non c’era più la cosciente, lacerante sofferenza, che forse ha accompagnato solo il sacrificio primordiale, c’era però la forma del rito, una recita simbolica, un confine, fatto di gesti e di parole, fra il mistero inesauribile del significato e la pura insignificanza, la pura neutralità dell’iterazione. È fatale che, rinunciando alla forma, si rinunci più o meno disinvoltamente al significato: e da secoli non si intravede un orizzonte entro cui ci sia possibile pensare e sentire ciò che facciamo col nutrimento e del nutrimento. Oltre il tragico, c’è solo lo spirito: ma dove soffia, lo spirito, nel mondo dei mattatoi rimossi, nell’epoca dei settari vegetariani e dei carnivori allegri, in cui la protezione anche giuridica degli animali liberi o domestici viene pagata col silenzio sugli innumerevoli animali degli allevamenti?

Note:

1) Come particella, el, vocalizzata diversamente, indica anche la direzione (“verso”) e la negazione dell’imperativo, al.

2) La Bibbia, come tutte le altre tradizioni, paragona spesso l’uomo all’albero: ma Giobbe e le Upanishad ci ricordano dove finisce l’analogia. “Per l’albero c’è ancora una speranza: se viene tagliato, rinverdirà; il suo germoglio non morirà... Ma un uomo, quando muore, è finito: dov’è un uomo, dopo l’ultimo respiro?” (Gb 14,7.10). “Ma l’albero, una volta tagliato, si leva dalla sua radice in una forma nuova: un uomo, una volta abbattuto, da quale radice rispunterà?” (Brhadaranyaka Upanishad III 9,28).

3) Ad esempio, in alcune tribù indiane di pescatori nella zona di Vancouver, i salmoni sono considerati mediatori divini che si sacrificano per nutrire gli uomini, e infine risorgono. L’animale è mediatore di cultura e conoscenza: cfr la storia di Hasib Karim ud-Din, nelle Mille e una notte; nelle profondità della terra, il giovane viene nutrito (con una dieta vegetariana) ed educato dalla Regina dei Serpenti, che poi gli offrirà il suo stesso corpo come cibo per fargli attingere la conoscenza suprema.

sabato 14 maggio 2011

Il defloratore comunale – appunti per un atto unico mai scritto (2002)


Introduzione:

Entra un Banditore. – Consumatori! Ora c’è il DEFLORATORE COMUNALE! Sia chiaro, siete di liberi di non usarlo, ma non vi conviene! Qualità, cultura... e una modica somma, che sarà in parte devoluta per finanziare una riserva dei Dogon in Africa! Via, via le passioni che infettano la casa e fanno crescere male i vostri bambini! Sopravvissuti che siano alla Lobby dei Pedofili, gli vorrete far sperimentare l’atrocità della Prima Volta? Il SESSO merita un’attenzione migliore...

Scena Prima:

Due uomini vestiti di giornali parlano di Islam, Europa e Bush (consultano i loro abiti di carta in modo ossessivo e rituale). Il tono idiota del discorso tende ad impennarsi in follia, acquista risonanze di dibattito filosofico medievale (tra realismo e nominalismo).
Arriva, in un saio grigio topo assai squallido, il figlio di uno dei due (il nominalista filo-occidentale). Bacia il suo cordone, e dice al padre (lo chiama per nome) che la sorella ha ricevuto la visita del Defloratore; a forza di depliants e videocassette s’è lasciata persuadere. Descrive il rito, cui ha assistito sul divano del tinello mentre guardava alla TV la finale del gioco più seguito, il Massacro dei Sacerdoti Dogon. Il padre è entusiasta, e benedice la Mente con una monodia sulla nullificazione della carne. Il suo primo interlocutore (il ‘realista’) gli ricorda le somiglianze col terrorismo suicida islamico, e benedice, cantando, la Pace e la Concordia fra Islam e Occidente. (Escono)
Passa, per un INTERMEZZO un po’ losco, elisabettiano, il Defloratore (breve monologo).

Scena Seconda:

Convegno dei Macellatori Rituali Italiani. – La carne è sacra, altro che storie! Ma solo se sterilizzata, uccisa e abbastanza ben cotta. Viene suggerita una visione beatifica del Mattatoio superefficiente come scuola di vita occidentale. Hitler, ad esempio, era vegetariano. Il vegetarianismo è estraneo all’anima profonda dell’Occidente. Viene introdotto, come ospite chiarissimo, il Defloratore: parla con stupenda modestia. Personalmente è vegetariano perché ritiene la carne del tutto superflua, ma plaude al Macellatore più mistico (quello della Visione beatifica), perché l’uccisione degli animali, condotta in modo scientifico, elimina tutte le tragedie del mondo. Se i pedofili, ad esempio, mangiassero carne sacra, ciccia santificata, con la consapevolezza che c’è chi la prepara per loro (il Mattatoio), troverebbero molto più acre il sapore dei bambini, che sono del resto anche indigesti.

Scena Terza:

Il figlio “monaco” della Prima Scena è in una discoteca (la musica è il ticchettio di un orologio con un trillo di sveglia ogni 60 secondi). Ballando riconosce (è un pitagorico) in un altro giovane la reincarnazione di un vitello che aveva ucciso da bambino, a bastonate: lo vede dai convulsi movimenti della sua danza. L’altro gli spiega che la sua appartenenza ad un’antica stirpe di individualisti, che tutto espiavano con la loro ascesi, lo sottrae certamente al rischio di una metempsicosi. Il “monaco” vorrebbe invece che la danza lo rendesse sempre più parte del tutto: così potrà purificarsi dal vecchio contatto con l’animale, che è troppo violento e soggetto alla violenza.

Coro: il “disegno della Città”, il cui centro mistico è il supermercato. Esce dal coro la sorella del “monaco”, che ora assiste al telefono i vecchi stupratori pentiti. Dopo anni di rieducazione sono quasi tutti innocui, ma, dice, non innocenti: pieni di piccole manie, si danno a perversioni sessuali infantiloidi, che il Servizio Telefonico piega al bene della società persuadendoli a consumare gadgets ispirati alla profanazione. Una signora del coro, di mezz’età, confessa improvvisamente la sua colpa: non ha accettato in casa il Defloratore per sua figlia! Amorevole, la giovane Sorella le si accosta e arriva a farle ammettere la verità: è lei la vergine! E non ha usufruito del pubblico servizio perché sogna l’amore totale, cannibalesco... anche se, qualche volta, il piacere della solitudine è più forte di ogni fantasia. Io, sola, sono IO, il mio cane non è abbastanza potente per far vacillare la mia consistenza. La giovane comprende entrambe le cose, e il coro annuisce, compiendo una danza silenziosa e strisciante, che finisce per accerchiare la donna. Un canto: il Servizio pubblico vuole che ognuno sia libero di rifiutarlo, il rifiuto è ricchezza. La signora piange con una nenia; se avesse conosciuto un uomo – le aveva predetto un medico – avrebbe partorito un mostro, e il mostro sarebbe stato accettato, perché il mostro è ricchezza; se non che il mostro non vuole essere accettato, si sa, i mostri sono di carne, e la carne è troppo, io in fondo ho rispettato il suo volere non facendolo nascere...
Coro sull’ansia e sulla morte, che è un mito per superare l’ansia.

Entra il Defloratore: guida un corteo di uomini-molluschi, cantando una canzone “religiosa” sul superamento di ogni morte possibile.


Eros, Legge, Agape: per provare a pensare (note del 2003)


Finché non saranno distinti eros e nozze, questioni come il “matrimonio omosessuale” saranno dilemmi, magari salutari, del fondamentalismo erotico o del fondamentalismo naturalistico.
Nozze e natura non stanno sullo stesso piano, a meno che non si deletteralizzi la natura. Se il dilemma ha a che fare col sesso (omo, etero), non solo non c’è uscita, ma neanche dicibilità. Il sesso, il taglio tra il maschio e la femmina, o è la lettera del testo nuziale, o è appunto l’uscita dalla natura come arché e come non-cultura, non-storia.
Il maschio e la femmina sono la lettera (la carne) di un testo a più letture: la filiazione, il tokos. La Legge, custode della lettera, sancisce-santifica il patto fondato sui sessi: la leggibilità delle nozze resta multiversa, platonicamente inesauribile. Una Legge che ascolti tutto il Testo sarebbe la Torah messianica, sempre da venire, e che tuttavia inizia qui-ora nel contrasto perpetuo tra carne e spirito, tra mondo e Regno.
L’eros omosessuale è condannato dunque alle catacombe? No, ma all’ordalia sì: o genera filiazione esoterica con un rituale non-letterale, oppure non è nuziale, è eros nel senso più vasto, fuori della Legge (non fuorilegge!). Ripensare eros omosessuale ed eterosessuale (parole e concetti mostruosi, che di fatto tendono all’impensabilità) può significare deletteralizzare la nuzialità proprio deletteralizzando l’eros. Se l’eros è vasto ed ha per mèta tutti i gradi della Bellezza, le nozze possono essere ancora un rito iniziatico interno al vasto eros, e che insieme da esso esce e migra (exodos, diexodos) per inserire la generazione letterale dei figli in uno spazio più vasto della stessa vastità erotica, uno spazio spirituale.
Accogliere tutto l’eros in una comunità senza letteralizzarlo in leggi, può portare la Legge alla libertà agapica.
I margini del testo restano margini (marginali), ma non sono e-marginati, espunti dalla pagina. Ciò è irrealizzabile letteralmente, ma culturalmente (=nella psychè collettiva, nel popolo) può (deve) operare come fermento erotico e agapico insieme.
Dare riti a tutti gli erotes – farli entrare tutti nella polis – non significherà farli entrare tutti nella lettera del Testo: qui la lettera, la sarx del Testo è la natura, il sesso, la coppia umana feconda nel corpo, la filiazione come rito fondante la cultura, la traditio. Ciò che resta ai margini, nel vuoto non-scritto, nel vuoto lasciato dalla lettera, rende spiritualmente feconda la lettera e ne è fecondato (come esotericamente il cristianesimo è stato “salvato” dalla diaspora ebraica, la sinagoga bendata e veggente di Bamberg, e la diaspora stessa ha vissuto dell’emarginazione imperiale romana-cristiana).
Le consonanti del Testo – la maschilità del corpo giuridico – comprendono potenzialmente tutte le letture, ma effettivamente hanno bisogno, per essere, del non-scritto, delle vocali, degli spazi e dei margini, e quanto più il rapporto è aperto tanto più è nuziale (e dunque messianico).
La Misericordia (karuna) dello Scritto è connessa col Giudizio, che si attiene ai limiti del mondo di nome-e-forma: chi legge, La rispetta restando in essa ed allargandola, com-patendo e conoscendo quanto è dato, caso per caso, kath’hekaston.

venerdì 13 maggio 2011

Filosseno di Smirne: Epistola sul suicidio/ 4


Filosseno saluta Agazia, sua compagna nella coppia celeste ed allieva amorosa e fedele.

Da questo deserto, immagine del mondo creato, che da alcuni mesi attraverso, ti spedisco qualche parola, profondamente meditata, in risposta alla tua ultima lettera. Hai dunque dei dubbi sul suicidio, e sai, anche meglio di me, di non essere l’unica; è infatti, il suicidio, qualcosa di cui si parla con un tremito e del corpo e dello spirito, perché è un atto di chi col corpo e con lo spirito interroga le cose ultime. Tu sai, anche meglio di me, che gli stoici e i pagani in genere l’hanno pensato con una certa leggerezza, e che la maggior parte dei filosofi e dei maestri, come i platonici, i giudei, i magi e i pastori della Chiesa di Cristo, sia psichica che pneumatica, l’hanno condannato quale pessimo fra gli umani peccati, quasi atto del demonio stesso compiuto prendendo possesso di un corpo e di un’anima d’uomo. Il mio insegnamento migra lontano dagli uni e dagli altri, e nel deserto della prova attende la grande visione che fece di Mosè la figura della mediazione fra la Luce e la Tenebra.
Gli atti appartengono sempre alla mescolanza, quindi non bisogna giudicare, perché il grano e il loglio, qui ed ora, non si possono discernere: neanche il Cristo psichico lo poteva. In se stessa l’entimesi del suicida è desiderio di affrettare la morte; quanto all’atto, che quell’entimesi esprime, come l’omicidio non è necessariamente peccato, o almeno peccato grave, ad esempio quando, richiesti, abbreviamo ed alleviamo le sofferenze del fratello, manifestando una caritatevole impazienza di liberarlo da ciò che odia: così, in alcuni casi, il suicidio può esprimere e manifestare un’entimesi non tenebrosa, o non del tutto tenebrosa.
Prevedo la tua valida obiezione: l’impulso suicida, cioè della distruzione di sé, non appartiene essenzialmente alla Tenebra e al suo Regno, divoratore di se stesso in una contesa molteplice ed anzi caotica? Vediamo se è così: vediamo se è la Verità intera.
Nella genesi del cosmo l’impulso distruttivo si esprime come aggressione alla Luce, in cui già è potenziale, per il principio della mescolanza, il desiderio di morire, da parte dell’impulso tenebroso stesso, attraverso la relazione innaturale ed ingiusta con la Luce. La Hyle non ne è cosciente, ma la sua entimesi autodistruttiva, esprimendosi nella demiurgia come entimesi di propagazione ed affermazione invidiosa di sé, nella mescolanza con la Luce divina – principio della gnosi – è piegata al moto verso la salvezza impresso proprio dalla Luce. Ma come nella mescolanza la contaminazione della Luce da parte della Tenebra si capovolge nella contaminazione della Tenebra da parte della Luce, e così la forza della Tenebra cede alla debolezza della Luce, la cui forza sottile e insieme semplice come colomba e astuta come serpente tratta la Tenebra come Materia in senso stretto (hyle) nella demiurgia; così l’entimesi suicida della Tenebra si capovolge, all’interno del corpo dove essa cerca ciecamente di durare, nell’entimesi suicida della Luce mescolata, che vuole morire perché il Dio che non è subentri finalmente a ciò che è.
Dunque l’uomo suicida, come ho detto, in un certo senso riflette l’errore e la colpa del Demiurgo malvagio, che creò distruggendo e imprigionando, ma che alla fine distrusse e imprigionò se stesso, manifestando così la propria ignoranza. Tuttavia l’uomo è opera della mescolanza, e quindi la violenza contro il corpo può coesistere in lui con il desiderio di salvare la Luce sepolta, se egli ha la volontà di accettare la sofferenza per l’espiazione del peccato attuale – quale è il suicidio – ed ha conoscenza della necessità, assoluta e non condizionata da circostanze individuali e contingenti, della distruzione di tutto ciò che appartiene al cosmo. Certo, l’impazienza e la temerarietà di quest’atto sono proprio le stesse dell’atto iniziale del demiurgo, per cui ogni atto in questo mondo implica il peccato e in un senso limitato è peccato; per questo motivo vanno compiuti solo i pochi atti necessari alla salvezza, e l’atto del suicida lo è raramente: ma alla sua entimesi non si può obiettare molto, se è molto mescolata ad un’entimesi di Luce. E infine l’atto stesso, se non è compiuto per moventi troppo limitati ed ilici, può condurre almeno ad un’altra nascita, in cui l’impazienza cieca di salvarsi dimostrata nella precedente può meritare una reale accelerazione della Redenzione di tutti. L’uomo suicida, a dire il vero, in genere non chiede la Redenzione totalmente e gnosticamente, ma chiede che gli sia concessa dal Demiurgo – o dal Padre, se c’è mescolanza di Luce – qualunque altra cosa, purché non resti nella sua presente condizione di mescolanza. Ora, fuori della mescolanza non ci sono che i sommi principi, Luce e Tenebra: ma la limitazione ilica o psichica della sua entimesi lo vincola di nuovo alla mescolanza, sebbene il suo grado futuro dipenda dal grado presente di Luce e Tenebra in cui ha deliberato l’atto. Ho detto che il suicida desidera qualunque altra cosa: non escludo che possa desiderare ‘qualunque altra cosa purché non sia la mescolanza nella sua totalità’; in questo senso, la sua entimesi coinciderebbe quasi con quella del Mediatore gnostico. In questo senso, la sua somiglianza con il Demiurgo sarebbe quasi quella del Serpente di bronzo con il Serpente omicida; perché il Cristo stesso ebbe forse quella conoscenza e quella volontà.
Con questo non voglio certo, né vorrò mai, esortarti a riflettere sul suicidio come su una possibilità degna in sé di uno gnostico; né tantomeno a metterlo in atto, perché, come dicevo rapidamente, sono così poche le cose che dobbiamo e possiamo mettere in atto: a maggior ragione se il mio sospetto è fondato, vale a dire se tu stai rattristando il tuo spirito con queste meditazioni a causa della mia assenza. Tu non la dovresti credere troppo lunga – così hai scritto – nemmeno se non ci ricongiungessimo più in questo mondo tenebroso, fragile e provvisorio; perché nella luminosa Terra dei Viventi saremo uniti in eterna conversazione di pace e di allegria, e già lo siamo se ci amiamo, come facciamo, di un amore perfetto e, quaggiù, fra i mostri e le insidie, veramente clandestino.

Filosseno di Smirne: Epistola sull’Uno e il Due/ 3


Filosseno apostolo di Cristo, Eletto della vera Chiesa pneumatica, saluta il suo Marcello.

Mi chiedi una spiegazione della generale ostilità manifestata contro di me dai fratelli di Smirne, il che equivale a sollecitare un’esposizione più chiara del mio insegnamento. I più lo giudicano un’eresia, un sogno folle ed infetto, mentre non è, come vedrai, se non l’originaria parola del grande Mani, oggi sfigurata e conculcata da cattivi pastori più ottusi e impenetrabili alla verità dei nostri stessi avversari dichiarati. Cerco ora di compiacerti, per carità ed amicizia, e ti supplico di perdonare la brevità cui mi costringe la malattia.
Prima dell’origine non c’è l’Uno, come affermano filosofi ciechi e teologi incauti, e nemmeno il Due; cosa che l’Apostolo, del resto, non si figurò giammai di predicare. C’è qualcosa che non è, un abisso inattingibile, né Dio né non-Dio; parlarne è impossibile, e del resto inutile, perché lì non c’è salvezza, né dannazione. L’origine, invece, è il Due; cioè l’Uno, Dio, e qualcosa di estraneo e imprevisto, il moto violento della Materia. Se quest’ultimo non fosse stato separato dal primo, non sarebbe accaduto mai nulla, e parimenti nulla sarebbe mai accaduto se la Materia non fosse uscita, in qualche modo, da quell’abisso; il che si può dire, perché l’abisso non è Dio: è qualcosa che non è, mentre la Materia, la Tenebra, è qualcosa che nega, e Dio, la Luce, è qualcosa che raccoglie e unisce, senza attribuirsi alcunché con la violenza e la superbia.
Sostengo inoltre, a differenza di molti falsi maestri, che Dio non è semplicemente il bene e la Materia non è semplicemente il male, ma sono l’uno il principio del bene e l’altra il principio del male, che si manifestano come tali nel momento presente, cioè nella mescolanza; all’inizio e alla fine dell’ordinamento cosmico, nella separazione, Dio è più del bene e la Materia è meno del male. L’irruzione della Tenebra nel Mondo della Luce ha apparentemente capovolto la gerarchia, naturale e potenziale; ma la Luce, fingendo di cedere alla Tenebra con semplicità di colomba e astuzia di serpente, ha introdotto nel cosmo un moto opposto ed estraneo, che sarà compiuto nella distruzione di tutto ciò che è. Così l’uomo, che è l’ultima opera della mescolanza, se vuole, in unione con la Luce sepolta, salvare se stesso, deve veramente cedere alla propria perdizione perché Dio si salvi; infatti, chi perderà la propria anima la salverà, perché la sua perdizione è perdizione apparente di ciò che è corruttibile, e vera salvezza della Luce incorruttibile.
Ma come la Luce ha perduto nell’irruzione originaria una parte non piccola di se stessa che, se si salverà, si salverà per così dire suo malgrado e credendo di perdersi; così l’uomo, sia pneumatico che psichico e addirittura ilico, cedendo nell’ignoranza e nel dolore alla perdizione di sé, sarà veramente salvo nella salvezza di Dio, che ricorderà e tratterrà l’essenza di ciò che cadde nella mescolanza, come un vaso trattiene l’aroma di un unguento ormai effuso. Qualcosa del genere ha detto il teologo Basilide, però ignorando del tutto il mistero della separazione. Se, riguardo a ciò, ottimo Marcello, m’interroghi sul destino finale della Tenebra, ti rispondo che essa resterà come limite esterno del Pleroma, dimenticata dalla Luce ed essa stessa dimentica di se stessa, cieca cioè come all’inizio, e tuttavia esistente nella sua non-esistenza, confusa e inattiva, fuori del Tutto, sommersa in un tempo caotico e in una non-conoscenza del Tutto e di sé che sarà l’unico riflesso della salvezza di cui potrà godere.
Medita ora le mie poche parole, figlio e fratello prediletto, e non prestare orecchio alle calunnie tenebrose degl’ilici che vanamente si dicono perfetti. Il Padre delle Luci possa avere compassione di loro.

mercoledì 11 maggio 2011

Filosseno di Smirne: frammenti/ 2


Frammenti citati da Leucippo Alessandrino, Eletto in Smirne, convertitosi poi all’ortodossia

Solo a partire dalla mescolanza, Dio è bene e la Materia male. Dunque il male e il bene sarebbero contingenti a causa della relazione ingiusta, e tuttavia provengono da principi liberi ed assoluti. Il bene orienta il caso originario, cioè l’aggressione tenebrosa, alla salvezza, attraverso l’azione, e così il male si avvia ad essere passivo e morto; mentre all’inizio il principio del male era ciecamente attivo e quello del bene soggetto alla violenza dell’usurpazione come un bimbo senza malizia.

La Tenebra è impulso di menzogna, e si apre uno spazio nella remissività della Luce. La Luce manifesta il proprio impulso di verità capovolgendo invisibilmente la direzione della caduta impressa alla demiurgia: cioè distruggendo le opere menzognere. Ma l’essenza della Redenzione è la sua [i.e. della Luce] contingente sottomissione alla mescolanza, che priva la Tenebra del suo potere falsificante e capovolgente. La sottomissione dell’uomo è l’inizio della propria distruzione, e della redenzione della Luce sepolta.

L’uomo è perduto in se stesso, come mescolanza –ma lo sarebbe comunque -; e salvato in Dio, come riflesso della Luce. Perdersi con consapevolezza della propria sottomissione è l’unica salvezza per l’uomo: ma non può mai essere una consapevolezza piena.

L’uomo non agisce, desidera per Colui che agisce, attendendo consapevolmente. Ma Colui che agisce non potrebbe agire senza il desiderio e l’attesa che provengono dal basso.

La Via non è degl’ilici o degli psichici o dei pneumatici, ma è comune: è desiderio di morire per il Padre delle Luci, pur sapendo che è impossibile desiderare la propria perdizione. Ma l’uomo intuisce che così non è del tutto escluso dal Pleroma, bensì vi entra in modo indicibile.

Il male finirà, la Tenebra no: sarà lontana e morta, ma sarà. Il suo impulso disordinato, cieco e menzognero sarà il limite esterno del Pleroma del Padre. Il male sarà dimenticato, il limite no, perché la salvezza è vita, e la vita implica il limite.

Filosseno di Smirne: vita e opere/ 1


Nei primi mesi del 2001, un periodo per me particolarmente oscuro e doloroso, mi fu commissionato un lavoro filologico su un autore manicheo pressoché sconosciuto, indicato da un paio di fonti bizantine semplicemente come Philoxenos Smyrnaios, il cui occultamento quasi riuscito (e il fallimento era opera mia, mia colpa, anche se riprendevo il filo di un eresiologo del X secolo trascurato dalla fama, proprio come Filosseno e come me) si doveva alla duplice scomunica della chiesa ortodossa e di quella manichea. Non credo che questa pubblicazione strapperà il suo nome a tenebre finalmente felici: tutt’al più darà loro un sigillo fraterno, uno spessore di rammemorazione luttuosa che il Male rosicchierà senza poterne fare guscio o parodia.

Notizia biografica di Teodoto Volias (m. 923), antiquario ed eresiologo bizantino

Filosseno di Smirne [ca. 325-356, ndt], teologo manicheo, fu accolto nella chiesa a diciassette anni; due anni più tardi era già Eletto, ma entro ventisei mesi al più fu scomunicato per aver condotto la dottrina della setta all’estremo della follia. Secondo il suo insegnamento (dogma), infatti, la salvezza del Dio di Luce implica la distruzione totale dell’uomo e del mondo, perché il fallimento definitivo in basso (to sfalma to teleion to en tois katō) si ribalta nella pienezza in alto (tô plerōmati en tois anō antameibetai). Dio si salva perdendo una parte immane (meros ti hypermeghiston) di Se stesso, ma ne conserva l’aroma (tēn autoû odmēn). Tuttavia Filosseno, pur così cieco nelle questioni teologiche, non arrivò a predicare l’anomismo o l’antinomismo (anomian de ē paranomian), e nemmeno la disperazione (anelpistian), bensì il desiderio di morire per il Padre (tēn toû hyper Patros apothanein epithymian); e la debolezza di Dio (hē Theoû astheneia) è così paradossalmente redenta dalla perdizione attiva (dia toû kat’energheian olethrou) dell’uomo, che – egli scrive – “non è allora del tutto escluso dal Regno, ma vi entra in modo indicibile (tropō tini alaletō)”. Dopo la scomunica egli soggiornò a Malta, dove sposò una giovane manichea di origine ebraica, Agazia, senza aver mai figli da lei. Secondo la testimonianza della moglie, Filosseno viaggiò poi in Persia e in Battriana. Forse morì nel deserto ai confini con l’India, assassinato da briganti pagani. Un Eletto di Smirne, Tiziano romano, lo descrisse come alto, bruno, di scarso pelo, ossuto, di lungo naso ed estremità smisurate, melanconico, dalla voce bassa e rotta, poco incline ai piaceri, ma anche alla disciplina ascetica. Scrisse alcuni trattati in greco, tra i quali: Kosmologhia Megalē in tre libri, Logos alēthinos peri phōtos kai skotias in quattro libri, e alcuni Dialogoi tra il Cristo pneumatico e il Cristo psichico.


[Ea quae extant: sei frammenti dalle opere; Epistola sull’Uno e il Due; Epistola sul suicidio]

lunedì 9 maggio 2011

Con Bloy, nella cloaca/9


Intuizione della moglie Jeanne, che Léon Bloy trascrive in latino: “Membrum virile symbolice Crucis effigies ab antiquitate videtur. Christus moriens in patibulo, emisit Spiritum. Vir coïtans et hoc modo cruciatus in muliere anhelans, emittit semen” (“Il membro virile viene considerato sin dall’antichità un’immagine simbolica della Croce. Cristo, morendo sul patibolo, emise lo Spirito. L’uomo che copula, crocifisso alla donna e ansimando su di lei, emette il seme”). Potrebbe essere un frammento dell’Adversus haereses di Ireneo (suggestione, unilaterale ma feconda, a suo modo eretica, di Borges su Bloy “continuatore dei cabalisti, fratello segreto di Swedenborg e di Blake”). Mi vengono in mente due tra le letture possibili. La prima: Gesù sulla Croce come l’Uomo sulla Donna; il grido della morte è il grido dell’orgasmo, l’effusione del Seme che feconda il legno della Croce, dell’Albero antico, facendone l’embrione del Paraclito, il Fico il cui tempo non è ancora arrivato. La seconda: Gesù crocifisso è il membro virile che, morendo, feconda la terra (che è anche la croce degli elementi, il Quaternario) col suo seme-Spirito, concependo la Chiesa-Regno nel supremo dolore. Le due ipotesi sono unificabili: la Croce è lo Spirito, la Terra Madre (Malkuth) è (la Sposa del)lo Spirito; Gesù è crocifisso/congiunto allo Spirito come il Daimon alla Tyche (“il caso è il nome moderno dello Spirito Santo”), il Maschio alla Femmina, il Sole alla Luna sul caduceo orfico commentato da Goethe. Il Padre è l’asse che li separa/unisce, è il loro abbraccio/lotta, o meglio è ciò che abbraccia il loro abbraccio. Meglio ancora: è lo Spazio (Maqòm), la Fonte (Peghè) dell’abbraccio, è il Silenzio da cui emergono la Parola e il Gemito.

Tra le aspre ingiurie delle Toledot Yeshuʻ si legge che il Dio-uomo dei cristiani era figlio di Maria e di un soldato romano, tale Yosef ben Pandera (Giuseppe figlio di Pantera o della Pantera: il feroce e affascinante felino è stato più volte associato, da Padri cristiani e Tannaìm talmudici, alla potenza predatrice dei romani; singolarmente, in certi bestiari medievali la Pantera Profumata era uno dei simboli teriomorfi di Gesù stesso). Nella versione meno calunniosa e più dolente la giovane di Nazareth subisce uno stupro. Schalom Ben Chorin chiosa in modo molto umano (e quindi limitato, ma opportuno) che così ripeteva e figurava il destino di tante ebree violate da truppe straniere.
Nella qabbalah successiva alla gerush del 1492, soprattutto in quella di ispirazione sabbatiana, il motivo acquista risonanze tenebrose, allarmanti. Il misterioso Moshe Chayyim Luzzatto scrive che le violenze contro le israelite, profetizzate da Zaccaria per il tempo messianico, vanno intese come un atto di tiqqun, di riparazione della sostanza divina: i pagani stupratori assorbono, prendono su di sé le scorie maligne ancora presenti nelle stuprate, che si purificano e compiono l’opera rendentrice. In un altro testo allo stupro-tiqqun si aggiunge un altro segno di bassura: le donne sono mestruate, e i nati saranno quindi bne-niddot, figli concepiti durante il ciclo mestruale, condizione di impurità così aborrita da diventare insulto tra i più noti ed efficaci.
Ceronetti ipotizza che la celebre ʻalmah di Isaia 7,14, la virgo dell’esegesi cristiana, sia in realtà una ierodula, una prostituta sacra: un prodigio di ignominia assoluta.
L’ebrea gnostica Simone Weil insiste nei suoi appunti sul fatto che lo stupro, la violenza carnale, negli antichi miti pagani è il modo in cui si manifesta il contatto dell’uomo con il soprannaturale.
Di tutto questo il vangelo di Luca e la sura coranica serbano come una vaga traccia mnestica addolcita dalla misericordia, e il segno si fa gaudioso, trasparenza di Regno: ma il turbamento di Maria di fronte al Giovinetto immaginale, tramite del Soffio, concentra nello spazio di un singhiozzo d’angoscia gli orrori squadernati dalle congetture marginali, dalle fantasie esoteriche o ereticali.
Forse Bloy non è lontano.

venerdì 6 maggio 2011

Con Bloy, nella cloaca/8


L’era astrologica del Leone può essere considerata l’esiodea età dell’oro. L’era del Cancro sarebbe allora caratterizzata dal passaggio all’età dell’argento: secondo Santillana, intorno al 7000 a. C. l’umanità conobbe una spaventosa perdita di sostanza spirituale – l’oro si offuscò, impallidì. L’era del Toro è conservatrice, tradizionale, in questo senso dominio soprattutto dei brahmana: vede il transito dall’argento al rame (Luna e Venere sono gli astri del Toro). L’età dell’Ariete è l’età dello kshatriya, e sperimenta, come realtà e presagio, il lungo arco di decadenza dal bronzo al ferro. Tuttavia, nel corso dei secoli più che al ferro di Esiodo viene da pensare ad un minerale alchemico come segno di maggiore bassura, di informità e di lavorio interno, trasmutatorio. Sotto l’Ariete domina il Padre come Signore degli Eserciti, il suo regime simbolico o patriarcato, l’etica dell’onore, l’ingenuitas del cuor-di-leone e la furia, l’ansia rajasica sempre pronta a consumarsi nello spirito, a farsi ascesi e ascesa al sacerdozio, itinerario purgativo verso l’unzione. Nell’ultimo quarto si annuncia il Figlio, il logos: il commento, la critica, il tragico, la ragione. La radice di questa lotta, di questo affrontamento, è al crocicchio tra la generosità guerriera e l’obliquità mercuriale. L’era dei Pesci (del Pesce) reca il segno del vaishya: Gesù è artigiano, Muhammad mercante. Tuttavia Gesù, testa della ecclesia dei Pesci, nasce e muore sotto l’Ariete, segno della Pasqua, della primavera. Secondo Bloy, i peccati specifici dell’età del Figlio sono avarizia e gola, per via della carne di Gesù (j’attends Dieu avec gourmandise, Rimbaud, Saison) e del suo sangue che è il denaro. Era dell’amore, delle religioni universali, della fine dell’onore e dell’inizio dell’interdipendenza mercantile, delle “comunicazioni”, del colonialismo. Dopo la dissoluzione del cosiddetto Medioevo, stagione di ardente e fragile equilibrio, si prepara l’era dell’Acquario, con forte anticipo e vertiginosa mixis archetipica. L’industrialismo segna l’ingresso nello shudra-varna, la titanica tecnica ottocentesca sta di fronte al suo gigantesco eroe e vittima, l’Operaio. Con l’epoca delle masse il servo torna schiavo, ma in una confusione essenziale che annuncia la crescita dell’avarna, del candala, meta corruttrice e opportuna dell’homo aequalis. Nella presente era dei candala già si prepara quella successiva, di nuovo dei brahmana: ma poiché sarà la fine dei Pesci e la transizione all’Acquario, sarà un sacerdozio di dissoluzione, di tecnocrati spirituali, di comunicatori borgesiani, di trickster sapienti e di seri illusionisti (anche se non mancherà mai un elemento di buffoneria, essendo la consumazione dei Pesci legata alla lugubre festa del Carnevale).

Nell’ordinato tumulto di appunti del Mendiant ingrat, impeccabile esegesi apocalittica della parabola del seminatore: il Padre semina, dissemina il suo Verbo prima sulla Via che è Gesù stesso, il Verbo incarnato, poi sulla Pietra che è la Chiesa di Pietro, poi sulle spine, la Tribolazione che lo (e la) incorona. È la triade di dolorosa sterilità che scandisce il Tempo dell’Attesa e della Speranza: l’Incarnazione, la Chiesa, i tempi dell’angoscia che preparano il Nuovo Avvento. Solo una piccola parte del seme cade nella buona terra di Canaan, “quella del Paraclito”. Spaventosa visione dell’età del Figlio: finalmente il seme è stato gettato, effuso, ma è un’altra caduta nell’aridità, anzi, nella più arida delle aridità possibili; e la parte che trova la terra fertile, la terra umile, la terra nuda, è quella destinata a morire nell’oscurità e nella putrefazione perché erompa l’Albero della Vita.

Perfetto esempio di ragionamento simbolico in una lettera di Bloy a Henry de Groux: “Jésus est au centre de tout, il assume tout, il porte tout, il souffre tout. Il est impossible de frapper un être sans le frapper, d’humilier quelqu’un sans l’humilier, de maudire ou de tuer qui que ce soit, sans le maudire ou le tuer lui-même. Le plus vil de tous les goujats est forcé d’emprunter le Visage du Christ pour recevoir un soufflet, de n’importe quelle main. Autrement, la claque ne pouvrait jamais l’atteindre et resterait suspendue, dans l’intervalle des planètes, pendant les siècles des siècles, jusqu’à ce qu’elle eût rencontré la Face qui pardonne...”. Proprio così: il male non potrebbe mai raggiungere la consistenza di atto se non incontrasse il limite della Croce, e del Corpo e del Volto di Chi vi sta appeso. Il male non avrebbe il nome, la realtà misteriosa di male, non sarebbe quel kentron, quel punto che trafigge il cuore divino e su cui tutto si incardina, se non fosse coinvolto nella solidarietà, nella pienezza trasmutatrice della Misericordia.

Ricordo una storiella sgradevole, probabile eco di una controversia autentica. Un prete cristiano dice a un rabbino: “Come potete venerare una legge scritta su due tavole di pietra? Se a Mosè fossero cadute entrambe in un crepaccio dell’Oreb, ora voi non avreste una legge!”. Il rabbino risponde, ghignando: “La vostra condizione è alquanto peggiore! Come potete venerare un Dio incarnato? Se Maria avesse abortito, ora voi non avreste un Dio!”. In realtà, le tavole sono state spezzate e il Dio incarnato è stato ucciso su una croce. Non si dà un’opposizione e un’alternativa tra idolatria e antidolatria: nessun uomo potrebbe infrangere gli eidola, le immagini, se le immagini non portassero, nella loro pienezza, l’umiltà di una manifestazione prospettica e l’ancor più grande e misteriosa umiltà della morte, la dignità sacrificale che le imporpora di vita eterna.

giovedì 5 maggio 2011

Con Bloy, nella cloaca/7


Ancora da uno spunto di Bloy: Fiat voluntas tua, sia, avvenga, sia fatto il tuo Spirito, che è la Volontà, l’ipostasi della Volontà. Non c’è preghiera che non sia teurgico-messianica: l’uomo prega che da quanto gli accade si manifesti lo Spirito, la totalità di shalom, la pienezza. Per questo: “Dio stesso provvederà l’agnello”; e “Sia fatto a me secondo la tua parola”; e “Fate quel che vi dirà”; e “Se possibile, passi da me…”. Per questo la cecità della fede è più veggente della sapienza. Per questo non ha alcun senso distinguere petizione e celebrazione, domanda e lode, pazienza e impazienza, angustia del particolare e apertura all’universale.

Meditazione della Vigna abbandonata, nel diario del 1894: il Paraclito si può assimilare all’operaio di cui la parabola tace, che arriva “troppo tardi”, all’ultimo secondo dell’ultima ora, “quando si è smesso di pagare i mercenari, quando tutti sono andati via e i pozzi della Notte si sono aperti”. Come il Messia di Kafka, il portatore dello Spirito è l’Ultimissimo, colui che appare in extremis, incomprensibile congiunzione di impazienza e dilazione: quando i servi della parola hanno esaurito il loro compito e ricevuto il loro salario, sempre lo stesso, un denario, che forse è proprio quel Verbo, signore del Giorno e dell’Attesa, dal quale hanno sperato il compenso; quando è notte, e non c’è più nessuno, e Dio stesso deve manifestarsi nella solitudine di quest’Uomo inconcepibile. Bloy termina su un a fortiori decisamente evangelico: se gli operai dell’undicesima ora hanno ottenuto la stessa paga di chi ha faticato tutto il giorno, cosa avrà l’Ultimo, l’Ultimissimo, l’Uomo della Notte che cerca lavoro quando è impossibile dargliene? Non potrà ricevere altro che la Vigna stessa, la “povera Vigna del Signore che muore”: la sua miseria, la sua impotenza, la sua assurdità, sono il sigillo dello Spirito, l’abisso in cui il tutto non può non precipitare, perfetta impetrazione universale, perfetta libertà al di là di ogni compenso, di ogni ordine visibile, di ogni vincolo o religio sia esteriore che interiore.
La manifestazione definitiva del Deus serviens non chiede nulla di meno di questo Mendicante a cui tutto è dovuto, che sarà uno e molti come l’Anticristo è uno e molti, e a differenza del Verbo incarnato, Primo dei Molti, Primogenito dei Morti.

Tratto che fa dell’Islam la religione del Paraclito, o piuttosto la religione che lo figura forse più apocalitticamente: estrema è in essa la tensione tra manifesto (zahir) e occulto (batin), tra legge e grazia, tra antico e nuovo, tra furia di unità e disseminazione nell’esilio. Da meditare con energia e insistenza l’atteggiamento spontaneo e recitato dei postcristiani d’oggi di fronte all’Islam, a tutti i livelli di conoscenza e malafede.

mercoledì 4 maggio 2011

Con Bloy, nella cloaca/6


L’Apocatastasi è la realtà suprema, ordinaria, al di là di ordinario e straordinario: per questo l’apocatastasi pensata in modo umano è la suprema irrealtà, il supremo male, la confusione anticristica. L’Anticristo diffonde proprio questo idolo, questa corruzione dell’apocatastasi umanodivina, ma il suo tempo conosce anche l’intensificarsi e unificarsi segreto delle scintille dello Spirito, che vive e sente l’imminenza della Trasformazione realissima. La parabola del campo di grano in cui viene seminato il loglio va applicata ai giorni della grande mixis, alla Nuova Era (New Age) di terribile libertà, all’eone post Christum e post christianismum, ai giorni dell’Anticristo e del Paraclito, dell’Imperatore che è una maschera sull’abisso e del Misero che è il Re in incognito dell’universo.

Il cristianesimo, la fedeltà al Verbo, morirà, già muore, come il suo Verbo, effondendo lo Spirito. Questo dono dell’agonia, quest’ultimo respiro creerà – sta già creando – un mondo che è dentro e fuori l’ambito misurato dall’abbraccio, dalla croce del Verbo: un mondo in cui l’interdipendenza della tecnica e del management è il riflesso degradato e vertiginoso della spoliazione perfetta, della chiesa dispersa degli spirituali, del loro gemito inenarrabile e della loro consapevolezza tutta attaccata al rovescio del cose, tutta appesa ad una coscienza mercuriale, profetica, liminare.

Iblis rifiuta di prosternarsi davanti all’Uomo: rifiutando l’incarnazione, è il partigiano dell’Assoluto, il monoteista estremo. Ma anche perché vede al di là dell’incarnazione: il suo peccato è profetico. Nel midrash è Emet, Verità, il Sigillo di Dio, ad opporsi alla creazione dell’uomo, insieme a Pace (Shalom), contro Chesed (Grazia) e Tzedeq (Giustizia-Carità): Adamo sarà menzognero e turbolento, meglio il suo non-essere del suo essere. Dio getta Emet a terra: per questo sta scritto La verità sorgerà dalla terra. L’uomo nasce dall’abbassamento, dalla caduta a terra della Verità. Eppure Verità è il Verbo, e il Verbo si incarna: c’è come un gioco abissale di manifestazione e nascondimento – Verità è umiliata da Dio nella creazione dell’Uomo, ed assume volontariamente questa umiliazione nell’Uomo, incarnandosi come Uomo. L’Uomo è il sogno di Dio, la maya sapiente e offuscatrice di Dio, la sua beatrix culpa: per questo è sintesi della creazione, per questo è il Cosmo. Ma il risveglio di Dio e dell’Uomo nel Regno, il risveglio dell’Unità, che effetto avrà sul Satana, sul Calunniatore, sull’Oppositore? Ovvero: chi è l’Oppositore? L’ignoranza profetica ci suggerisce sempre la stessa cosa, anche su di lui: solo allora si saprà il suo vero nome – in Dio unificato, nell’Unitotalità. Una cosa possiamo congetturare: come tutto ciò che è reale, sarà (è) molto più luminoso di come pensiamo l’apocatastasi e molto più terribile, distruttivo e annichilente di come pensiamo il castigo finale.

La fede pagana è l’immaginazione creatrice, il potere oscuro che plasma il mondo, illusione prospettica e facoltà simbolico-sintetica. La fede abramica, in particolare la fede messianica cristiana, esce da questo seme squarciandolo come un’irradiazione: è il segreto della misericordia, dello scambio o communicatio tra il creatore e la creatura, il fiat che risponde al fiat, l’onnipotenza supplice dell’orante che fonda l’onnipotenza principale, originaria di Dio. Come nel fiat creatore il respiro, lo Spirito, il nafas ha il ritmo della contrazione (lo tzimtzum) e della distensione, dell’effusione benigna, dolce, graziosa, così nel fiat co-creatore dell’uomo il miracolo, lo spostamento della montagna, l’accesso al Regno è una comune (umano-divina) distensione che scaturisce imprevista da una resistenza, da un’ignoranza creaturale che non rinuncia al tutto, che resta – nella sua bassura – all’altezza del tutto; la fede come domanda di shalom, di totalità, pur nel pungente riconoscimento del limite, della frantumazione.

martedì 3 maggio 2011

Con Bloy, nella cloaca/5


A volte sento che è come se Gesù avesse detto: Tutto il vostro esoterismo della Shekhinah, della misericordia creatrice e redentrice, del bisogno che Dio ha dell’uomo, trattiene il Regno se qualcuno non impersona, con autorità, la solitudine di Dio sulla soglia dell’apocalisse e la solitudine dell’uomo nell’abisso dell’Unicità. Ma è necessario che il Messia dell’attesa muoia ignobilmente, perché è venuto ad affrettare il tempo e non a fermarlo. Non è venuto a portare shalom, ma la spada.

Sui primi tempi del cristianesimo: chi di spada perisce, di spada ferisce.

Forse tra i segni del vangelo il più doloroso, il più apocalittico (e davvero in un certo senso mostruoso, Iudaeis scandalum anche più della croce) è il concepimento di Gesù senza seme d’uomo. Come per indicare che Gesù non è del tutto uomo, non nel senso gnostico, bensì nel senso messianico che non è tutto l’Uomo, è solo la Testa: ha assunto il Golgota, è stato innalzato sul monte del Cranio, ma ha distrutto la Città che l’ha espulso.

Il mistero della divinità di Gesù, del suo essere Unigenito e Figlio naturale, è ancora parte della profezia e dell’attesa, è fondazione del corpus permixtum, del campo in cui crescono confusamente grano e loglio; il Regno è Dio-tutto-in-tutte-le-cose, è l’Uomo in cui Dio è definitivamente incarnato e glorificato. Ma anche la mistica della theosis e della non-dualità, anche – anzi soprattutto, se è sapienza che gonfia e non umilia – l’esoterismo del “tutto è Dio in Dio e nulla in sé” è profezia e attesa, perché il Regno (il Regno che è al di là della sua stessa attesa profetica, al di là dell’ansia apocalittica, il Regno in cui si consuma ogni sophia e ogni nubuwwa) è la norma, è la realtà: non è sacro, non è straordinario, non è mistero, non è interorità, non è esteriorità.

lunedì 2 maggio 2011

Con Bloy, nella cloaca/4


Estendendo uno spunto di M. A. Ouaknin: “male”, in ebraico raʻ, ha lo stesso corpo consonantico di “amico, prossimo”, reʻa. Amando il prossimo si ama (corporalmente, nel corpo) il proprio male, ciò che per se stessi, per il proprio io è male. Così il precetto di amare i nemici è uno di quei paradossi che riportano all’archè, alla verità archetipica dei rapporti umano-divini. La radice di “pascere, nutrire”, da cui pastore (roʻeh), è lo stessa sequenza biconsonantica, cui si aggiunge la he finale, suggello di misericordia, di chiamata dello Spirito: il celebre salmo 23 inizia con YHWH roʻi, “Il Signore è il mio pastore”, che si potrebbe anche leggere: è il mio male. Il Pastore umano e divino, umano-divino, fa pascolare le pecore, le custodisce e protegge – e le macella, le sacrifica, come l’arcipastore e arcivittima Abele. Amare Gesù Fratello è amare il male, il proprio male, il proprio nemico, perché non c’è Prossimo altro da lui, fuori da lui. I ladri, i lestai contrapposti al Pastore, che non entrano nell’ovile attraverso la Porta, sono semplici maligni, non sono il Male-di-sé, così come Gesù Cristo è il Peccato e la Maledizione, non un peccatore, un maledetto fra i molti.
Ille, inquam, Lucifer qui nescit occasum (citazione del Praeconium Paschale, dall’ultima nota del Salut).

Secondo un passo del midrash ai Salmi, il porco (chazer) è impuro, proibito (taref) perché non rumina (gerah lo yiggar, è l’immediatezza degradata di ciò che non medita, non ri-prende, non ri-flette, non fa circolare il nutrimento), ma nei tempi messianici ridiverrà ruminante e quindi lecito, puro – si chiama chazer proprio perché ritorna (chozer), perché sta facendo teshuvah. La sua è l’oscura teshuvah di ciò che è contaminato, della materia caduta, ed è figura dell’apocatastasi, della impensabile metanoia finale di Esaù, dell’impulso maligno (yetzer raʻ). Così Porco Dio è un’espressione simbolica dell’incarnazione, della manifestazione di Dio nella debolezza, ma un’espressione oscura, oscuramente tendente alla propria metanoia, al proprio ritorno – come il porco, appunto.

“Il nostro bene è nascosto e così profondamente nascosto da trovarsi sotto il suo contrario: così la nostra vita è nascosta sotto la morte, l’amore di Dio per noi sotto l’odio contro di noi, la gloria sotto l’ignominia, la salvezza sotto la perdizione, il regno sotto l’esilio, il cielo sotto l’inferno, la sapienza sotto la stoltezza, la giustizia sotto il peccato, la virtù sotto la debolezza. E così, universalmente, ogni nostra affermazione di un qualsiasi bene è nascosta sotto la negazione dello stesso, affinché la fede abbia luogo in Dio, che è essenza negativa e bontà e sapienza e giustizia, né può essere posseduto o attinto se non dopo aver negato tutte le nostre certezze” (Martin Lutero, Commento alla Lettera ai Romani). Questo paragrafo colpisce e umetta di luce l’anima, ma tradisce presto la sua unilateralità: se fosse proprio così, i rotoli di Qohelet e Giobbe, come pure i versetti giuridici e sacerdotali battuti dall’arido Soffio, potrebbero essere sostituiti da qualche conturbante passaggio di dialettica tedesca o, nel migliore dei casi, da un libretto di mistica renana con le sue apparenti durezze, le sue evidenti vertigini, e la sua sostanziale e sottilmente perplessa rinuncia ad ogni verme profetico. “Affinché la fede abbia luogo in Dio”, la gloria, il peso, lo splendore del Nome ci sono dati sia sub contraria specie che nella povera trasparenza della gloria terrestre, nell’umile e soda shalom dei patriarchi come nei grassi, dolci e buoni piaceri di una vita ordinaria.

domenica 1 maggio 2011

Con Bloy, nella cloaca/3


Parabola dei due figli: il padre chiede loro di andare a lavorare la vigna – il primo dice di sì e non va, il secondo dice di no, si pente e va. Il Verbo, quando si rivela per figure, fondando un ordine, “dice di sì”, e non è banale menzogna umana, è l’ipocrisia evangelica, tragicamente inerente al corpus permixtum, all’attesa (lo insegna Quinzio): è il sì di chi resta col Padre e non esce per lavorare la vigna. Lo Spirito, il Dissipatore, l’Esule, la Shekhinah come Spirito inferiore, Figlia-Sorella, Signora e Prostituta, Messia del Secondo Avvento, dice di no, sfugge al verbo fissato nella scrittura o nelle forme dell’attesa, ed esce per la sua metanoia, come il Figlio Prodigo ovvero scialacquatore, per lavorare nella vigna confuso coi servi, mescolato a tutti, scintilla e respiro di questo mondo dannato e redento.

Alla donna che concepisce cessano le mestruazioni: così per la terra, per la chiesa gravida del Veniente s’interrompe il ciclo lunare dell’invocazione liturgica, segno di avodah, di servitù-servizio, di galuth, di esilio-diffusione. L’erranza lunare si fissa nella centralità e stabilità solare, come un pensiero del cervello che si condensi e si fonda nel pensiero del cuore.

Apocalisse e apocatastasi sono contrarie, come croce e gloria, come chiesa del Verbo e chiesa dello Spirito, come Vecchia e Nuova Alleanza, come la Shekhinah disseminata e dispersa e il Dissipatore e Accusatore, Satana, entrambi “principi di questo mondo”: come ricco e ricco, potenza e potenza, pace e pace. Tutto è Uno, Dio è incarnato, Dio porta tutte le cose, tutte le cose portano Dio, lo sappiano o no, lo vogliano o no, e l’onnipotenza si compie nell’onnidebolezza, nella misericordia che rende tutto scambievole, vertiginosamente reversibile, nauseante come l’apocalisse, sfolgorante come il grido di vittoria dell’apocatastasi.

Altro passo del diario di Bloy, da meditare: “Ce qui est singulièrement, étrangement déconcertant, c’est que Dieu semble faire ce que font les mauvais riches(Au fait, pourquoi dit-on les mauvais riches, comme s’il pouvait y en avoir de bons?), lesquels riches font payer horriblement cher ce qu’ils donnent et ne le donnent qu’à la dernière extrémité, lorsqu’il n’existe plus aucun moyen de le refuser. Il ya une réponse infiniment mystérieuse et mélancolique. C’est que Dieu est pauvre et, jusqu’à une certaine heure, impuissant. Ce qu’il donne, il faut qu’il l’obtienne d’abord lui-même, avec des souffrances inconnues dont nos plus belles souffrances ne sont qu’un reflet”. Sempre il mistero della Misericordia, per cui Dio salverà gli uomini solo in quanto da loro salvato, e viceversa. È il segreto del rapporto signore-servo nell’Islam, è il segreto della maya in India. Nella Sua povertà e impotenza, per la Sua povertà e impotenza (ovvero per la Sua misericordia), Dio sembra agire come il cattivo ricco, ovvero come il cattivo povero: non c’è male solido o apparente che non si riduca alla sofferenza divina, alla discesa divina, alla contrazione divina, non c’è scandalo, pietra d’inciampo, tranello mistico e profetico che non si confonda con lo scandalo della dolcezza, della gratuità creatrice, dell’illusione creatrice e redentrice, del sogno divino che è più forte della sua veglia perché sprofonda in un risveglio intriso di sonno, in una integrità ferita che è davvero la consumazione di ogni desiderio, di ogni pensiero, di ogni lucente dolore e oltredolore.

Con Bloy, nella cloaca/2


Spaventoso appunto esegetico di Léon Bloy nel suo diario: leggendo apocalitticamente la parabola dei talenti, il servo che ne riceve cinque sarebbe Israele che ha ricevuto la Torah, colui che ne ha ricevuti due la chiesa di Cristo, con i suoi due Testamenti, mentre quello che ha avuto in affidamento un solo talento sarebbe la “chiesa” dispersa dello Spirito Santo. Come sempre, Bloy coglie la scintilla dello Spirito nel deflagrare e nel vorticare dei contrari, resi più laceranti eppure (perché) più indiscernibili dall’aria tenebrosa degli ultimi giorni. Seguendo l’intuizione, il Misero che ha ricevuto l’unum necessarium, invece di farlo fruttare o di metterlo in banca, costruendo una comunità religiosa che amministri l’attesa (simbolo ambiguo come quello della lievitazione della pasta), lo seppellisce per restituirlo immutato al Padrone e viene punito per questa sua viltà. Simone Weil era ossessionata da questa storia e dall’episodio del fico sterile, che applicava a se stessa: chi ha scarse doti naturali finisce per non essere (incomprensibilmente) degno nemmeno dei doni spirituali, della salvezza. Ma Bloy, l’annunciatore del Paraclito e dello Spirito, l’autore del Salut par les juifs, sembra indicare qualcosa di più perturbante: il mendicante pneumatico sarà punito, ma come Giobbe e Israele, divenendo intercessione vivente per gli altri, condizione della loro stessa salvezza, compimento dell’ignominia redentrice del Figlio. Il castigo apocalittico dei solitari che hanno avuto in consegna solo lo Spirito vagabondo può essere, in fondo, invocazione della Gloria come ciò che è oltre la Giustizia e la Misericordia, come oltraggio per la Gloria – tale il suggerimento dell’apologo di Ernest Hello citato da Bloy nel Salut e, in una luce diversa ma indicibilmente fraterna, quello di Farid al-din Attar in un brano dell’Ilahi Nama. (L’Islam, la rivelazione del ferus homo Ismaele, è figura già apocalittica del Paraclito, sebbene – io credo – non come crederebbe Bloy).

Ognuno e ogni cosa (è stata-è-)sarà salvata, totalmente e pienamente salvata, eppure solo pochissimi, il Resto annunciato dai profeti, saranno attori e strumenti consapevoli della redenzione, e prenderanno su di sé l’inconsapevolezza e il rifiuto dell’universo, pagheranno per gli altri, che forse entreranno nel Corpo divino, nell’Unità realissima, sotto la tutela dei primi e quasi viventi la loro vita, come la maggior parte delle membra animali è animata dalla immaginazione e dalla fede della totalità incarnata, che però si concentra più attivamente in due o tre organi, non per questo più importanti, anzi più nascosti e umili, inchiodati a lavorare indefessamente, eternamente, nei crocicchi della profondità.

Il Giudeo che scende da Gerusalemme a Gerico è il Verbo incarnato, che scende dalla città celeste nel tumulto mondano, che abbandona la sicurezza dell’ordine sacro per le strade polverose dell’esilio. I briganti lo assalgono, riducendolo in fin di vita: è l’intera umanità usurpatrice e peccatrice, riassunta nelle due croci laterali, che crocifigge la Seconda Persona, la spoglia, la ferisce, le ruba gli attributi e se li assume temerariamente. I custodi del Verbo, la Chiesa fondata da lui e su di lui, non lo vedono, non lo riconoscono: in propria venit et sui eum non receperunt. Nemo est propheta in patria – l’apertura del Verbo, la sua ferita, non “sta” nella patria sacra, nella terra santa, ma è appunto apertura all’inatteso e inaudito, allo Spirito, al Paraclito. Il Samaritano è nemico del Giudeo come lo Spirito è in conflitto con il Verbo: è l’eretico, l’apostata che provoca Gesù a pronunciare vaticini dell’Eschaton, del Regno come opposizione radicale al mondo (il viandante Samaritano che transita indifeso in Giudea, la Samaritana più volte sposata e infine adultera). Il prossimo del Verbo moribondo, morto, esausto e depredato, è quel Viandante disprezzato, in pericolo, abbandonato, che si presenta come suo nemico, che appare come suo nemico. Il Soffio errabondo medica le ferite del Verbo crocifisso col suo Olio e il suo Vino, poi lo affida senza alcuna garanzia, pagando del suo, alle cure dell’Oste, il proprietario della Locanda: pandocheus, pandocheion, “che accoglie tutti”, fa pensare alla Chiesa, universale, cattolica, col suo ambiguo ufficio di custodire il Cristo ferito, moribondo, convalescente, finché non torni lo Spirito da lui effuso sulla Croce per ricompensarla di quanto avrà speso, di quanto avrà rischiato, e niente più.
In un certo senso, i briganti (“ladroni”), il levita e il sacerdote sono la stessa cosa, la stessa moltitudine – come pure l’Oste, se non mantiene (cosa piuttosto probabile: non gli conviene) la parola.
In un certo senso, nelle Scritture non si parla che della caduta e della glorificazione di Dio.