Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 29 settembre 2014

Arbor Vitae




per Emanuele Sabetta

Il simbolo dell’albero della vita è senza dubbio uno dei più arcaici e comuni, soprattutto nella forma (che ritroviamo dalla Bhagavad-Gita a Dante) dell’albero capovolto, le cui radici sono in cielo (l’invisibile, l’occulto, coelum a celando) e la chioma sulla terra (il visibile-tangibile). L’albero è un’immagine pressoché perfetta dell’unimolteplicità organica della vita vivente: qualsiasi sezione della chioma e delle radici è una moltitudine di individui apparentemente isolati, ma anche qualsiasi sezione del tronco è una immagine dei cieli e dei cicli concentrici. Così pure l’albero, ogni albero, è una famiglia di esseri, un ghenos – è un albero genealogico, appunto: è sia l’umanità e l’universo nel suo insieme, sia l’individuo come specchio e pars totalis (Leibniz), macrocosmo e microcosmo. Il primo salmo accosta lo tzaddiq, il giusto o uomo completo, a un albero radicato nella terra e piantato su acque correnti, che dà frutto a suo tempo, rinnovandosi proprio in grazia della sintesi tra unità e molteplicità, laddove l’individualità animale sperimenta la separazione dello sradicamento a causa dell’accentramento della sensibilità in un cervello (dagli antichi associato alla luna riflettente) che presiede alla rete del sistema nervoso. Sotto la superficie terrestre, ghê, nella chthon profonda e nutriente, regno dei morti, affondano le radici, immagine del passato che ci condiziona come spessore karmico, subcosciente, eredità dei morti appunto, delle generazioni molteplici, infinite; la direzione è quella dell’acqua, verso il basso, e l’anima secondo Eraclito annusa in direzione di Hades, il suo orientamento è la catabasi, la discesa tra gli antenati di cui conosciamo a malapena il nome e che in realtà rivivono in noi, moltiplicano e proiettano i loro desideri insoddisfatti in noi, muovendoci come fili sottilissimi di marionette. Il tronco, che si erge retto, verticale, semplice, nell’atmosfera terrestre, è il presente ovvero la coscienza: sotto la corteccia, da cui si trae la carta, c’è però un libro da sfogliare, strati concentrici di tempo che il kairòs può vedere simultaneamente, nell’istante della creazione geniale. Nel tronco la linfa è acqua e fuoco, la direzione è verso una maggiore differenziazione, verso l’ostensione di sé che è l’akmè dell’albero, i rami con le foglie, i fiori, i frutti: il ramo ripete la struttura dell’intero albero, modularmente, così ogni nostra azione cosciente, ispirata però da un rapporto liberato, attivo con il passato e i morti, è generazione del nuovo, possibile parto di una eterna primavera o verità, aletheia, disvelamento. Il futuro è l’intenzione, ciò che nel presente, nel tempo di attesa autunnale o invernale della vita non vediamo quasi mai direttamente, se non quando si trasforma in presenza e muore nel passato: così la verde foglia è un piccolo albero raccolto in una struttura che per lo più ricorda la vesica piscis, l’intersezione tra i mondi, il fiore è il culmine della rivelazione erotica e il frutto è la fru-izione, che però l’albero offre ad altro da sé, al mondo, agli uccelli, agli uomini – si matura uscendo da sé, si diventa dolci e succosi sulla soglia della morte, sulla soglia dell’inizio di un nuovo ciclo. Chi unisca in sé la tritemporalità sarà albero di vita, scenderà come acqua e salirà come fiamma, potrà dire (senza inflazione: con umano-divina umiltà) Io sono colui che era, è e sarà: ovvero sarà al contempo radice, tronco e foglia, parte e tutto, partecipando alla vita del tutto.

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