Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



giovedì 9 ottobre 2014

Amleto, ovvero dell’infinito e dell’azione





per Marco Morgantini

Secondo Nietzsche, Amleto è affine all’“uomo dionisiaco” che, avendo penetrata la natura delle cose, conosciuta la verità, quando torna al molteplice, al tempo, al quotidiano non può agire, soverchiato dall’orrore e dalla nausea. Mentre i drammaturghi ateniesi porgono la coppa dell’ebbrezza dionisiaca spezzando e facendo sanguinare destini apollinei, eroici, la chuzpa del moderno, di Shakespeare, sta nel rappresentare direttamente il dionisiaco come somma impotenza e somma potenza – dell’intelletto, della sensibilità, alla fine anche di un’“azione”, di un gesto-drâma catastrofico, un Giudizio Finale precipitato con atti indiretti, semiaccidentali, ispirazioni capricciose e lucidissima indolenza.

L’uomo penetrato dall’infinito contamina di infinito tutti i suoi atti. Il delay di Amleto è l’illimitato che trascina ogni cosa alla propria infinita consumazione. Il compito divino, titanico, dell’Amlodi originario è sentito e vissuto dal principe di Shakespeare come una conoscenza disastrosa della totalità, un’irruzione di totalità che non infrange o dissolve ma amplia daimonicamente i confini dell’individuo.

Amleto è entrato nel Maelström, il vortice che fa e disfa i mondi: ne esce giovane-vecchio, vivo-morto, come il personaggio di Poe.

Amleto sa che lo spettro del padre sta chiamando a sé, alla morte, l’intera generazione, l’intera corte danese. Sa anche che una visione è un fenomeno dell’immaginazione, che va veri-ficato, reso vero. La sua melancolia – ipocrita in senso profondo e non mera simulazione strumentale, bensì maschera ermetico-dionisiaca – è proprio l’abisso di folgorante indolenza che muove ogni cosa verso il suo limite, verso il Giudizio. L’ambiguità di ogni evento (morte di Polonio, di Ofelia, scoperta della lettera alla corte inglese, pirati, scambio delle coppe e delle spade avvelenate ecc.) è la chiarità oscura della conoscenza che amplia i limiti delle azioni umane.

Discorso nel cimitero, suscitato dal cranio del Fool. Percezione delle relazioni samsariche. Il wit di profondità viaggia sul confine tra la mistica scettico-dionisiaca di un un Khayyām, di un Ḥāfe (la polvere, la botte) e la “cronica lucidità” dell’uomo senza qualità. Su quel confine il Principe è il fool dell’universo, figlio di Yorick (secondo l’ottimo suggerimento di Harold Bloom) e dell’Ade. 

To be or not to be non parla di suicidio – non essenzialmente – ma del samsara. La coscienza del sogno, del desiderio non estinto che si proietta oltre la soglia della morte, ci rende cowards, paralizza lo slancio eroico dell’uomo apollineo, pagano.

Il Danton di Büchner vede la Natura come utero e tomba dell’azione rivoluzionaria. Il suo disgusto, la sua sazietà e stanchezza di vittima consapevole pongono la mascherata storica su uno sfondo di orrore-voluttà dionisiaco. Il Nulla è il dio che deve nascere dal Caos del mondo temporale, storico: si svela l’epidēmia di un Dioniso smascherato e dunque annichilito. Il nichilismo come dionisismo infelice dell’apocalisse cristiana.
Chissà se a Marx arrise un riflesso della dionisiaca lucidità di Amleto e di Danton quando “citò”, modificandolo, il “Ben scavato, vecchia talpa” del giuramento di vendetta, all’inizio della tragedia.

Legame tra Dio e Pidocchio osservato da Ceronetti: sterminio igienico e nichilismo. Ivan Illich sui parassiti: abbiamo perso l’idea che la pelle, i confini, siano abitabili, abbiamo distrutto la mediazione dei commons. Enigma che i fanciulli proposero a Omero, sui pidocchi. Eraclito osserva: anche l’uomo insipiente, come il grande vate degli Elleni, muore perché non sa scioglierlo. “Ciò che abbiamo visto e preso lo perdiamo, ciò che non abbiamo né visto né preso lo portiamo”. Il visibile-tangibile sfugge verso la morte, perché è morte, entropia; l’invisibile-intangibile lo portiamo, in noi e su di noi, lo mostriamo con i nostri tratti, con la nostra esistenza. I pidocchi si chiamano phtheirai, dalla radice di phtheiro, distruggere, consumare: le archai nascoste ci consumano, ci dissanguano. L’illimitato venir-meno è compensato dall’invisibile che portiamo in noi/su di noi, e l’uomo muore/fallisce quando non è intero, cioè quando non assume in sé l’intero ciclo come fa l’iniziato. Omero doveva lasciarsi guidare dalla cecità che “portava in sé”, invece di tentare di risolvere l’indovinello con la mente: la sua cecità è infatti, simbolicamente, sia lo stato del non-iniziato sia, al contrario, la visione cieca dell’iniziato, il suo “occhio di troppo” (Hölderlin) tattile e acustico, esoterico.

Enigma-koan: l’ēthos antropōi daimōn di Eraclito, alla luce della filosofia di Schopenhauer, sarebbe: il carattere acquisito-fenomenico è, per l’uomo, (non diverso da) il carattere intelligibile. Ovvero, forse: l’uomo si accosta al proprio archetipo-angelo ponendosi ermeticamente, in controluce, rispetto al proprio carattere-volto: “ragionando” per speculum, a dritto e a rovescio, sapendosi maschera-burattino dell’Altro-Sé. Questo gioco, lotta erotica, narcissica e dionisiaca, è la storia degli amori tra Sole e Luna.

Epicuro collega la libertà-contingenza al clinamen, affine all’obliquità dell’eclittica. La precessione degli equinozi è una catastrofe in cui necessità astrale-celeste e angoscia terrestre si intrecciano. Amlodi è il fool redentore, Horus fanciullo del nuovo ordine, del nuovo ciclo temporale. Shakespeare, umanizzando la sua follia, la rende più essenziale: il time out of joint è la melancolia-angoscia chiaroveggente del Principe, che assume in sé il transito epocale, la corruzione generativa (“Something is rotten in the state of Denmark”) del passaggio storico. Così è stato, in tutti i sensi: Amleto è il mythos dell’uomo moderno, come osserva ancora Bloom. La sua pazzia è l’alba dell’era: la rinuncia ad Ofelia è forse quella all’era anteriore, che muore affogata in una demenza nostalgica, carica di risonanze incestuose, regressive. Amleto però, cristicamente, non è destinato a regnare sulla terra: la sua patria è la morte, o piuttosto uno spazio di possibilità tra la vita e la morte, un tertium abitabile solo da eroi come lui. Per questo è una figura così dinamica, ironica, dialettica: non istaura nulla, morendo nel compimento della vendetta per un istante spezza il ciclo.

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