Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 24 dicembre 2014

Sul cuore del dolore, qualche anno fa




Caro amico,

Laozi insegna che il Cielo e la Terra (e il santo, che si conforma al loro agire scevro di ego, wu-wei) sono privi di “umanità” (la somma virtù confuciana): trattano le diecimila creature come i cani di paglia del sacrificio, che durante le cerimonie vengono colmati di onori per poi finire calpestati e gettati via come immondizia comune. In un altro passo giustamente scopriamo che questa assenza di umanità è la suprema umanità, la bontà che discende imparzialmente sulle diecimila creature come il sole e la pioggia del discorso evangelico tanto amato da Simone Weil. Il punto è che il Bene è la Realtà stessa in quanto desiderabile, in quanto meta della volontà, oggetto e consumazione dell’amore: ma appunto in itinere, per me, è sempre anche oggetto, e quindi anche non-bene e non-realtà. Agendo in quanto esseri limitati non possiamo non rappresentarci il fine buono, e così facendo lo contaminiamo: la consolazione è questa impossibilità di uno sguardo totalmente semplice, veramente-realmente semplice. In questo senso, finché siamo in cammino la consolazione è necessaria: ma Platone ricorda quanto siano lontane la natura della necessità e quella del bene, con parole mille volte commentate dalla nostra Santa degli Sradicati. Secondo la tradizione cristiana, solo Gesù sperimentò (sperimenta) l’assenza di consolazione, nel Gethsemani e sul Golgotha, e quindi attinge, per natura e obbedienza, la purezza massima dello sguardo, la trasparenza perfetta nel patimento che si fa glorioso.
Quando si parla di Provvidenza non si può non ritornare a Giobbe – almeno, io non posso farne a meno. Ricordo ancora l’emozione che accompagnò la mia prima lettura delle finali parole di liberazione: Ti conoscevo tramite l’udito, per sentito dire – ma ora i miei occhi ti hanno visto – per questo mi pento e mi consolo sulla polvere e sulla cenere. Più volte ho discusso di questi versetti con C***: lui mi ha detto, e poi ha scritto in un suo libro, che dopo le parole sue e degli amici, dopo l’ascolto della fede e dell’obbedienza ai comandamenti, dopo la ribellione che si fa atto d’accusa, chiamata in giudizio, Giobbe assiste alla brutale e rinfrescante teofania di Dio, quasi una processione dionisiaco-eleusina di cerve, struzzi, leoni, coccodrilli (il cui silenzio – silenzio del logos, della parola umana – è accompagnato da un verbo che non lo viola, il verbo divino condensato in quelle maestose interrogazioni, in quelle provocazioni regali e paterne), e vede Dio nelle sue opere, vede il mistero della incomprensibile manifestazione divina nell’assalto del leone e nel terrore del cervo, nella bellezza dei corpi e nella fragile perfezione delle infinite esistenze creaturali. Io credo che abbia visto Dio coi suoi occhi proprio in questo senso – il mistero manifesto, l’avventura ontologica di Chesterton e il pulcherrimum nihil di Silesio –  ma che ciò vada inteso proprio come lo svelarsi della misericordia divina, la sua Provvidenza che è la sua amorosa conoscenza di sé. Dio si guarda in uno specchio, come Zagreo: Dio era un tesoro nascosto, e ha amato essere conosciuto, come Allah racconta di sé nel hadith. Dio è incomprensibilmente la maestà atroce del Leviatano e la tenerezza ancor più atroce del vitellino che fa due passi fuori dall’utero e viene sbranato dal Leviatano.
Ricordo anche che l’emozione del finale del Libro di Giobbe ritornò, qualche anno più tardi, quando scoprii quel commento vedantico a un passo cruciale della Gita: Ishvara stesso è colui che trasmigra. Io non sono Dio, l’agnellino non è Dio, il Leviatano non è Dio, ma questa distanza non è fuori da Dio – è la sua trasmigrazione, la sua discesa, la sua croce. Lui mi sta di fronte nel mistero – il mistero del suo nascondimento e della sua teofania – ma io non sono altro che/da Lui. Questa è la semplicità dello sguardo, che nel suo senso più forte e più alto ci è preclusa, e ci è preclusa proprio perché ci fonda, ci costituisce. Noi siamo solitamente inconsapevoli del respiro, e quasi ininterrottamente della vita vegetativa del corpo, e delle motivazioni profonde del nostro agire: infinitamente di più lo siamo di ciò che è semplice, l’essere, il nostro radicamento in Dio, quella provvidenza per cui abbiamo voluto essere chi siamo e ad ogni istante rinnoviamo la ribellione, l’oblio, la distanza da quell’assenso originario di cui parla il Corano.
Semplice è Giobbe: semplice è Gesù che grida di dolore nella totale conformità al proprio destino divino. Semplice è anche (senza però esser passato per il crogiolo della doppiezza e della costruzione delle proprie maschere) il bambino molto piccolo, che protesta ed esige e piange e ride senza porsi di fronte al proprio fondamento, senza trattarlo come un oggetto, senza mettere in dubbio la trasparenza angelica dell’universo. Semplice è chi sa che tutto ciò che accade gli appartiene, lo riguarda, e se si rappresenta una provvidenza, una meta buona e assoluta, è consapevole che occhio non vide e orecchio non udì quel che ci attende, quel che già è in ogni istante della nostra esistenza. Semplice è chi non confonde: per questo maestri di semplicità sono gli ebrei, che litigano con Dio per amore e per diritto di nascita. Semplice è chi dice, come Gesù sulla croce, Ho sete quando ha sete: che non costruisce teodicee per giustificare Dio, come gli amici di Giobbe, e non idolatra neanche il mistero, l’onnipotenza di Dio, perché Ishvara stesso è colui che trasmigra.

P. S. Quasi tutti gli eventi della vita di Simone sono sfiorati da un velo di comicità tenera e terribile, come l’ala delicata e ben costrutta di un insetto bellissimo. Penso a quando, durante la famosa vendemmia nel contado francese, ospite di un amico cattolico, lavava i piatti (lo faceva come se stesse manipolando gli strumenti liturgici nella proskomidia bizantina, ed era un metodo assai lento e assai inefficiente) e parlava di Dio: “In cielo avremo tutte le perfezioni”. L’amico le rispose ridendo: “Quindi mia moglie sarà intelligente e tu saprai lavare i piatti”. Si prese un solennissimo schiaffo.

Nessun commento:

Posta un commento