Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 16 aprile 2011

Note su Leibniz


Omologie. La forma sostanziale di Aristotele può forse essere concepita come la monade di Leibniz: centro di vita-espressione (conoscenza), punto di vista irrappresentabile delle rappresentazioni. Oggetto della percezione è sempre il corpo, che però non è uno in sé, bensì aggregato (di infinite sostanze corporee, in infinitum). La materia, il corpo in quanto tale, cioè in quanto materia secunda, è fenomeno: risulta dalla relativa passività delle monadi che lo compongono, ovvero dalle loro percezioni-espressioni confuse. Le monadi “semplici” sono forme che percepiscono-esprimono il mondo in modo puntuale (minerali) o lineare (vegetali), lo proiettando reagendo (quindi in modo relativamente attivo) con la pura manifestazione di forme (minerali) e/o con la crescita regolare e lo sviluppo delle piante. (In ogni caso c’è polarità, pulsazione: ovunque ci sia vita-espressione c’è azione-reazione, il riflesso dello specchio di Dioniso). La materia dunque “si riduce” alla forma, come le cause efficienti sono il punto di vista proiettato dalle monadi (che agiscono in base a fini, tendono spontaneamente all’actus, alla perfezione) sui corpi. (Monadi, sistema teleologico, sintropia: corpi, sistema meccanico, entropia, risultato fenomenico, oggettivato, della sintropia).

La monade “dominante” è relativamente più attiva, in un mondo pieno-continuo: eppure l’indipendenza reciproca anima (forma)/corpo è il risultato dell’indipendenza reciproca delle monadi tutte, microcosmi variamente lucidi o perfetti o dispiegati (manifesti). L’armonia prestabilita (fra tutte le monadi, fra ogni monade e tutte – tà panta, il mondo –, tra la monade e il suo corpo, suo punto di vista sul mondo) è l’attualizzazione della pienezza-continuità: la parte è parte totale, tutto è in tutto, ogni sostanza è mondo che (in quanto) rispecchia-esprime il mondo. Il composto (corpo) simboleggia-esprime il semplice (anima – e viceversa), e tutto è uno nel molteplice. Non c’è percezione-espressione se non incarnata in segni, non c’è forma se non corporea.

Il sentimento esprime il mondo attraverso attenzione e memoria: è bidimensionale, e dunque animale (l’immagine psichica è un’atmosfera, uno stile comportamentale-conoscitivo, ed è accompagnata dalla comparsa del sistema nervoso, con i suoi neura o nervi che sono anche i fili della marionetta-individuo). La polarità espressiva di ogni vita acquista nell’animale un’altra dimensione, ritorna su se stessa accompagnata da sensazioni di piacere e dolore etc. Il dolore esprime la puntura dell’ape nella modalità proiettiva del sentire: spontaneo, ma non volontario – è azione della forma sostanziale-anima, ma si presenta come (relativa) passione, diminuzione di perfezione conosciuta in modo (relativamente) confuso, e infatti appare immediato.

Il pensiero ragionevole (umano) esprime il mondo in modo tridimensionale (sempre relativamente: tutto è continuo, natura non facit saltus, la vita è come la fiamma che cresce nei suoi vari livelli, come un organismo che sviluppa nuove forme senza deporre le precedenti): le percezioni sensibili e i sentimenti acquistano la dimensione della necessità, l’espressione-sentire ritorna su se stessa, la polarità ora è “massima” (la ragione è legata a un maggiore sviluppo dell’ego, della separatività, dell’astrazione che può indebolire come intensificare la vita).

L’uomo è l’animale più espressivo, ma proiettando in maggior misura l’espressione fuori di sé può acquistare la vera libertà, lo spirito, oppure smarrirsi nell’alienazione della techne, della sua opera che ripete-rispecchia quella divina. Il corpo segnico del pensiero è così arbitrario e insieme ben fondato, nomôi kai physei, e le habitudines che mettono in proporzione espressione ed espresso (il logos, insomma) sono abiti viventi, regole operative – la percezione/espressione è l’azione e la vita della monade (vedi il libro di R. Fabbrichesi Leo, che segue la lezione di Sini e di Peirce).

Percezione confusa: la molteplicità è espressa come un’unità che è “nota a se stessa”. Dolore e piacere sono percezioni più distinte, tuttavia la loro conoscenza è in buona parte “primitiva”, sono quasi Urphänomena dell’animalità, della sostanza senziente. Dico “quasi” perché la loro analogia, ad es., con la percezione dei colori ha un limite: proprio per la loro maggiore attività e distinzione, vengono conosciuti come “stati interni”, inerenti all’io. (Di nuovo, si dispiega la gradualità e la continuità di un’unica esperienza-mondo).

Secondo Ibn ʻArabī i minerali e le piante, in quanto obbediscono (reagiscono) prontamente all’azione divina mediata dai corpi, hanno una conoscenza intuitiva (per “disvelamento”, kashf) superiore a quella umana, mediata dalla ragione (ʻaql, ovvero “vincolo”). La loro percezione-espressione (re-azione) puntuale, confusa, è un sonno profondo: come prajña, la sapienza del sonno senza sogni, è superiore alla vijñana, alla coscienza animale-umana, ma anche meno perfetta in quanto esprime il mondo a un numero inferiore di dimensioni, in modo più complicatus. L’uomo, accedendo alla meditazione propria di Idrīs-Elia, può parzialmente recuperare (in quanto già lo possiede, velato) questo piano unṣūrī, “elementare” (meditando come un monte, come una pianta, come un animale…).

Leibniz ha una concezione “sovramaterialistica” della trasformazione-metamorfosi come verità metafisica della generazione e corruzione (nascita e morte) delle sostanze composte. Sembra tendere alla fisica di Anassagora. Alla morte il corpo dell’animale si disgrega in altri corpi, “mentre” la forma sostanziale o anima o monade dominante permane con un corpo più piccolo. Quindi resta nel flusso dei corpi come se stessa-eppure-non-se-stessa, ovvero entrando in altre composizioni senza perdere la propria identità: di nuovo, panta en pâsin, tutto è in tutto. Alla nascita accade l’opposto: quindi il mondo naturale è da sempre e per sempre (dall’alfa all’omega) un fiume, un continuo in cui lo stesso si fa altro e l’altro ritorna lo stesso (Empedocle, Eraclito, forse anche Parmenide). Per le anime umane razionali invece Leibniz postula la creazione nel tempo: ma ciò non spezza il continuo? Forse vuol dire che ad ogni concepimento umano si “aggiunge”, si infonde lo spessore “storico” della ragione umana, la memoria che non è accumulo ma la presenza conoscitiva-espressiva a Dio, lo star-di-fronte-a-Dio che costituisce l’uomo (“crescendo” come ulteriore dimensione sulla sensibilità animale, ma anche esprimendo la capacità di essere “specchio lucido” di Dio – secondo Ibn ʻArabī –, microcosmo nel senso più distinto, dinamico, spirituale). Così l’immortalità umana è in continuità con l’indistruttibilità delle altre monadi-esseri (tutte le cose “risorgeranno”), ma ha il novum specifico della memoria cosciente. L’uomo è l’anima del cosmo perché è conspevole di essere ciò che il cosmo è confusamente. L’uomo è il re-sacerdote, califfo (vicario) di Dio, proprio perché è la più bassa tra le creature. Solo se si umilia verrà esaltato: questa verità è in fieri, dinamica, la prima è evidente, è il suo humus. È il ribelle del creato, è quasi Satana. Isacco il Siro esorta a considerarsi inferiori alle creature “irrazionali” (aloga), perché non saranno giudicate (ovvero non sono giudicate dal logos, ur-teil, “partizione originaria” secondo Hölderlin).

In quanto sue espressioni-creature, tutti gli esseri contingenti tendono all’Essere necessario, come tutte le verità di fatto tendono a risolversi, in infinitum (in Dio), in verità di ragione, assolute. Ma l’espressione è caduta (beatrix culpa), ogni esistente e il mondo nel suo insieme ha un limite: non tutti i possibili esistono, non tutte le idee di Dio si realizzano. Proprio i possibili non realizzati sono il limite che circoscrive quelli realizzati: sono quasi il quadro o lo sfondo dell’espressione-Creato. Ma come pensare lo statuto ontologico dei possibili, soprattutto di quelli non attualizzati? È forse analogo al caos?

In virtù della corrispondenza armonica, i corpi sono un flusso e gli stati o atti percettivi in continuo mutamento. La meditazione, congiungendo sonno e memoria, rende il punto di vista (inesteso, “quadridimensionale”, limite del mondo) trasparente a se stesso, quindi più libero-attivo. La monade “dominante” al suo apice è hegemonikon, testimone, punto di stupore creaturale-creativo, di prajña che emette e sintetizza la sua interiore-esterna unimolteplicità percettivo-espressiva.

I possibili sono le essenze o idee in mente Dei. Il mondo non è Dio, lo esprime (=sua creatura-riflesso vivente), quindi la sua determinazione, il suo limite, sarà effetto della saggia volontà divina: non la sua necessaria (absolute) emanazione, che implicherebbe l’esistenza in atto di tutti i possibili. La loro “lotta per l’esistenza” nella mente di Dio è dovuta al fatto che i possibili, pur reali per Dio e tra loro non assolutamente contraddittori, non sono tra loro tutti compatibili o compossibili, data la volontà di creare un (il) mondo. (Si può forse dire che i possibili non esistentificati sono l’abisso che separa Dio dal mondo? Anche l’uomo, lo spirito, in quanto specchio diretto di Dio, imago Dei, non esprimerebbe tutti i possibili, pur potendone concepire appunto la possibilità).

In Leibniz è come se l’interdipendenza-shunyata (tutto è connesso a tutto – tutto è in tutto – ogni cosa è specchio del tutto, quodammodo omnia, “parte totale”) cercasse una formulazione ipotetica, fisico-metafisica, mentre Wittgenstein e il buddhismo “tacciono di ciò di cui non si può parlare” (il limite del dicibile-pensabile fa stagliare il tutto, il vuoto quanto non-indipendenza, in senso negativo, è lo spazio libero e dinamico dell’interdipendenza in senso positivo). Ma la “metafisica dinamica” di Leibniz sembra, almeno a volte, risolvere l’idea ingenua e cosificata di sostanza in un intreccio di rispecchiamenti, dove “il centro è ovunque e la circonferenza da nessuna parte” (Dio esprime sé nel mondo).

Forse Leibniz avrebbe dovuto ripensare il principio di identità: A è non-A e quindi-eppure A. O in una chiave appunto “buddhista” (Zen), o in una luce trinitaria, come in Florenskij. Altrimenti lo iato tra verità di ragione e di fatto rimane astratto, razionalistico, invoca il passaggio al limite in modo poco chiaro. Una cosa è se stessa in quanto è (esprime) il mondo: la “filosofia dello specchio” richiede una sorta di circolarità, di rimando infinito che si chiude o curva su se stesso. (L’ut unum sint, il corpo del Christus Totalis come realtà non sembrano trovare un posto adeguato nella visione leibniziana).

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