Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 9 aprile 2011

Da vecchie conversazioni sugli dèi


I.


L’ambivalenza mitica, arcaica dello specchio è famosa: Dioniso-Zagreo si distrae, si aliena da sé mirandovi stupito il suo riflesso – e in quell’istante i Titani lo uccidono. L’universo è quel riflesso smemorato, fissato in illusoria permanenza da un gesto sacrificale-omicida (“violenza e gioco”, commenta saggio, e nicciano, Colli). Anche Narciso è figura eminentemente orfica: amando sé come altro nella parvenza che gli rimandano le acque cosmogoniche, originarie, il giovinetto muore e rinasce come fiore il cui odore stordisce, trae fuori da se stessi, dona un breve e leggero sonno di stupore (narkào, narcosi). La sua orficità è forte nell’eludere pervicacemente l’eros come apertura all’alterità, atteggiamento che gli attira la nemesi: ma come al solito il mito non moraleggia, disegna per quanto possibile la manifestazione di un archetipo. Narciso simboleggia certo il narcisismo come passione umana, ma anche la passione del Divino autosufficiente che esce da sé, che sperimenta un’estasi mortale-creatrice nella molteplicità, passando attraverso le acque – il cui riflesso di superficie cela l’abisso della morte trasformante, dell’iniziazione profonda – della Materia. Quindi è anche vero che la passione umana, come sempre, è imitazione seminconsapevole – assonnata, stordita – di una passione divina, e la sterilità di Narciso, quintessenziata in “un bel fior senz’alcun frutto”, è anche la morte che fa dell’Uno Molti, caduta originaria (e in quanto tale stigmatizzata da Plotino, e da tutti gli spirituali) e insieme ekstasis, compimento del divino nel fiore della bellezza odorosa, il fiore come essenza del simbolo, culmine fragile e mediano dell’opera creatrice (apprezzato dall’anima, che in questo mito, appunto, si specchia e tragicamente giustifica).

Dice bene questa gloria ambigua (spirito-anima) dello specchio e di Narciso uno stupendo sonetto orfico di Rilke:


Specchi, nessuno ancora ha mai descritto

sapendo l’esser vostro nella vostra essenza.

Voi, come un setaccio di buchi fitto

voi, del tempo spazi interstiziali.


Voi, ancor di vuoti saloni generosi –,

come foreste immensi nel crepuscolo...

E il lampadario, cervo dalle ramose corna,

muove attraverso il vostro impenetrabile.


A volte siete colmi di pitture.

Alcune sembrano in voi venute –,

altre remote respingeste timorosi.


Ma la più bella rimarrà – ,

finché nelle sue gote altrove trattenute,

irrompa il chiaro Narciso liberato.


II.


La proporzione Jung:Corbin=Pensa:Buddha credo meriti di essere sviluppata. Per passare dal lettino della terapia psicanalitica al mondo delle rivelazioni angeliche, si deve percorrere una strada cui Hillman allude, anche se non è detto che gli interessi tracciarla: perché Hillman vuol restare fedele al destino della psiche occidentale, alla sua storia-cultura, quindi le sue indicazioni sono ermetiche, sfuggenti, a volte risultano più preziose certe sue allusioni, certe risonanze inerenti al suo stile di pensiero e di sensibilità, che non molte sue apparenti prese di posizione polemiche, brillanti e sottilmente fuorvianti. Non troppo diversamente, la vipassana di Pensa deve uscire dallo stanzone e dalla stanzetta ed entrare nel mondo, lasciarlo entrare, fare spazio alla sua manifestazione, “così com’è”: e che sia difficile per il praticante occidentale, abitante delle metropoli impersonali, murato nelle sue nevrosi, motivato spesso segretamente dalle sue richieste di sollievo o di benessere, è qualcosa che possiamo testimoniare direttamente. Eppure, in un tempo in cui gli angeli “non si rivelano più”, nel “tempo di privazione” dell’elegia di Hoelderlin, è urgente e possibile esercitare, senza la paranoia che è ansia soffocante di significati definitivi, l’ufficio profetico che fu del Precursore: “preparare la via”. Non possiamo ritrovare gli angeli solo con sforzi privati – come il barone di Munchausen che pretendeva di sollevarsi per i capelli – ma senza partire da questi sforzi non è pensabile alcun accostamento all’immaginale: non possiamo non partire da “qui”, dalla nostra necessità, dalla nostra malattia, dal nostro io che forse è un’apertura sul mondo, una presenza carnale, non una chiusura, una porta sprangata, un muro. Entrare nel mondo delle fiabe, nel mondo immaginale insomma, vuol dire (parola di Cristina Campo, e degli gnostici, dei sufi etc.) “ragionare a rovescio”, vedere la forma, la faccia dell’evento invece della proiezione, della rappresentazione soggettiva: ma per farlo non abbiamo altra lente che quella, deformata e quindi viva, prensile, delle nostre proiezioni, della nostra prospettiva. Ogni visione del mondo è un quadro, un ritratto del mondo, quindi qualcosa di prospettico: ma la prospettiva, che all’inizio mi sembra “la mia”, si rivela essere quella del mondo, dell’oggetto stesso che mi guarda, che mi si fa incontro. L’angelo viene a cercare Maria, non viceversa: eppure Maria, dice Ibn Arabi, vede un uomo perfetto, perché è una donna, ed è piena di casto-bruciante amore divino. Gli antichi sostenevano che ogni visione, a partire da quella fisica, oculare, è un incontro erotico, una sorta di coito fra il ‘soggetto’ e l’‘oggetto’, tra l’irradiazione che mi viene dal mondo e il raggio del mio occhio che è di origine solare, che insomma è parente del dio Sole, degli archetipi.


III.


Non avevo rilevato la presenza del Dio-Capro nella selva ricca e inestricabile dei tuoi ultimi sogni, ma poiché l’hai pensato, in effetti è così: Pan c’è (come nelle scritte sulle autostrade, che sono un segnale in codice per informare gli eroinomani della presenza di pusher nella zona). Il grande Pan è morto, ma ritorna sempre, insiste sempre, come fantasma diabolico e inquietante, come pathos morboso in cui risuonano, respinti in un sottosuolo di dissonanze, gli armonici del pathos mitico e tragico, del pathos dell’archè. Ma la sobria e fremente preghiera di Socrate a Pan, nel Fedro, ci indica una strada “agli incroci del cuore” (Rilke) e ci pone sulle tracce di un altro dio dei crocicchi, l’ermetico Eros figlio di Poros e Penia, vagabondo che vive sul crinale della morte.

Gli assalti coattivi di Pan sono la sostanza della nostra adolescenza, delle nostre molte adolescenze: tu ne stai attraversando una, non meno, anzi forse più importante della prima, perché sei nel mezzo del cammin di nostra vita, la selva oscura degli archetipi ti sta cingendo da ogni lato e attendi il lume dei padri, la guida di Virgilio e di tutti i morti che rischiarano (così spesso non visti, non ringraziati, non amati) i comuni – eppure ogni volta solitari – percorsi intrecciati del karma. Pan è il divino nel naturale: dopo l’oracolo di Plutarco, per noi cristianizzati è difficile coglierlo nella pianura abbacinata dal sole, nell’ansa segreta del fiumiciattolo, nella vibratilità profetica degli animali; ma, se reimpariamo la reverenza di Socrate, possiamo ancora scorgerne le vestigia forcute nel mondo apparentemente privato del sogno, nella presunta solitudine e separatezza del nostro corpo percorso dai fremiti di adolescenze sempre nuove.

Il panico ci apre l’occhio dell’immaginazione sul divino nella natura. Si può applicare alla religione dei Molti questo versetto dell’Unico Dio abramico: reshit chokhmah yirat YHWH, “principio della sapienza è il timore del Signore”. Rabbi Mendel di Kotzk dice che è come il terrore che prende quando si incontra un lupo in un bosco: si ha paura e basta, senza tempo di interrogarsi e pensare. È un paradosso: come può un sentimento istintivo, irriflesso, essere la scaturigine, la fonte, il seme, l’inizio della sapienza? Questo timore-paura (che non è ancora il panico, ma è un phobos estremamente intenso e pervasivo) va assunto su uno sfondo di accettazione del divino, va per così dire abbracciato da una sorta di sati permanente: è la mindfulness della paura, la presenza di anima e cuore alla paura a costituire “il principio della saggezza”. Non diversamente, credo, con Pan.

La preghiera socratica a Pan fiorisce significativamente durante un dialogo su Eros, sulla mania erotica, il Fedro. Quando Dante ha la tremenda visione sciamanica di Amore, nella solitudine della sua stanza, parla di un “segnore di pauroso aspetto”, e i versi ci comunicano un phobos violento, che fa rizzare peli e capelli, una presenza da incubo lucido che sta al confine tra il “timore di Dio” dei Proverbi e gli assalti di Pan alla psiche politeistica:


Quando m’apparve Amor subitamente

Cui essenza membrar mi dà orrore.


IV.


Il sacro conosce solo la configurazione del mythos, dell’intreccio mitico, la sua ananke supera le motivazioni, le intenzioni – come nel caso di Uzzà, uno dei portatori dell’Arca dell’Alleanza, che stese la mano per sorreggerla quando rischiava di cadere a terra (gesto che sembrerebbe di squisita bhakti, dal punto di vista dell’uomo che l’ha compiuto) e venne immediatamente fulminato. Kafka dice che le nostre interpretazioni del mito esprimono solo la nostra disperazione di comprenderlo: meno nichilisticamente, direi che le interpretazioni sono quadri umani 3D, sezioni molteplici di uno sfuggente e spaventoso (per noi) Oggetto 4D. In questo senso, anche le motivazioni umane rientrano nel mito, ma non nella sua archè, che è sovrarazionale, bensì nell’agone dionisiaco del teatro tragico, in cui l’umano e il divino lottano facendo risplendere qualcosa che sta al di là del sacro stesso. Le perplessità del logos sono più sacre del sacro, o per lo meno ci mettono sull’unica via lungo la quale è possibile relativizzare persino il sacro – la via dell’iniziazione, la via del pathos che insegna trasformandoci nella tenebra. Ricordi Eschilo (pathei mathos)?


Scende goccia a goccia nel sonno, in faccia al cuore,

un affanno memore di angosce: anche a chi non la vuole

giunge saggezza; grazia violenta

degli dèi che seggono al venerando timone.

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