Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 9 aprile 2011

Fogli sparsi e ingialliti (2008)


Ai margini dell’Isagoge di Porfirio

Ghenos – come la stirpe, come il bosco: unificante – analogo alla materia per la sua indistinzione, se considerato dal basso (dal punto di vista logico, cioè dell’uomo che conosce astraendo); ma simbolo dell’ordine angelico come unimolteplicità se considerato dall’alto (dal punto di vista heno-ontologico, cioè dell’Uno che si manifesta). La specie-eidos è il punto di giunzione tra il ghenos e l’individuo: è la morphè, la sua conoscenza è morfologica, fenomenologica, sta al confine tra unità e molteplicità (la specie introduce la differenza-diaforà nel ghenos, ma è l’unità dei suoi individui): corrisponde all’angelo, ognuno dei quali è specie. Il proprio-idion media tra la specie (che è forma, essenza e logicamente la definizione) e l’accidente-symbebekòs. L’idion non rientra nella definizione intesa come classificazione (massimo comun divisore, prospettiva logica), ma è inerente alla forma, seppure non sempre in atto (minimo comune multiplo, prospettiva ontologica). Il symbebekòs è ciò che si predica dell’ente o sostanza (le 9 categorie dopo la prima, l’ousia appunto) senza appartenerle necessariamente (=la sua assenza non implica la phthorà, la distruzione, del soggetto). Di fatto, da un punto di vista henologico (cioè al di sopra e al di là dei limiti della prospettiva logica e anche ontologica), si può dire con Ibn Arabi che l’universo intero rispetto a Dio è majmū‛ a‛rād, un insieme di accidenti, oppure che ogni cosa è necessaria nell’Essere Necessario (nella prima formula si allude al fanā’, nell’altra al baqā’); ma proprio alla luce del tawhīd integrale di cui parla Corbin, dell’unificazione di fanā’ e baqā’, è importante congiungere la prospettiva henologica a quella ontologica e quindi logica, tenendo i piani distinti ma sapendone l’interdipendenza. Così la relativa consistenza degli esseri creati fonda e necessita il sapere logico, col suo riferimento formale e fenomenologico alla sostanza, pur lasciando aperta nel linguaggio e nel pensiero la possibilità di rotture che alludano simbolicamente al rapporto originario.

Dell’individuo (atomon) non si dà episteme: l’individuo è il punto più basso dell’emanazione, del depotenziamento inerente alla moltiplicazione, è il confondersi della forma nell’apeiron della materia, è atomon in quanto irripetibile e (ulteriormente) indivisibile – ma proprio per questo è anche atomon come l’istante, punto di partenza dell’epistrofè, della conoscenza, inconoscibile, segreto della rubūbiyya. L’uomo come essere più “individuale” del creato – di qui il rapporto dialettico con gli angeli, pure forme. L’individuo sostanza prima di Aristotele e di Tommaso (corollario: concettualismo) e punto più basso dell’emanazione nei platonici. Porfirio dice che il primo è lo sguardo dal basso, logico, il secondo quello dall’alto, heno-ontologico: ma da una prospettiva di tawhīd integrale si può dire che l’individuo è la manifestazione dell’universale – tutto è in tutto – e al tempo stesso che, in quanto individuo, parte irrelata, autoidentità impossibile e inconoscibile, è illusorio.

La scienza non lo attinge, perché oggetto della scienza è l’astratto, l’universale post res (dal punto di vista logico – dal punto di vista del nous è l’universale in rebus e ante res. Duplice accezione del termine episteme). Se l’individuo entra in un sillogismo, rende impossibile la deduzione necessaria, la dimostrazione (Newman: “Tutti gli uomini muoiono, Elia è un uomo, dunque Elia è morto”). L’individuo è una sorta di corda tesa tra l’universale astratto e la persona concreta – o tra l’universale astratto e l’universale concreto (l’Uomo, il Cristo Totale etc.). In questo spazio – in questa intersezione che è davvero atomon – fiorisce la fede abramica, o l’eros antico.


Riduzione di tutte le proposizioni a quelle categoriche, riduzione di tutte le proporzioni all’uguaglianza, di ogni somiglianza e uguaglianza all’identità. L’identità numerica come orizzonte ultimo: è l’identità immediata, concreta, quella di Conoscente e Conosciuto nella Conoscenza.


Il realismo ‘forte’: legittimo se gli universalia sono le idee platoniche, le idee divine, gli angeli-dèi; illegittimo se ipostatizza i concetti della logica. Il concettualismo (realismo o nominalismo moderati) come posizione mediana, affine a quella aristotelica: parte dal basso e vede nell’individuo la realtà primaria, il sinolo concreto, ciò che partecipa dell’atto d’essere. Il nominalismo estremo come posizione scettico-razionalistica: presente nello scetticismo religioso, fideistico, nel misticismo che immerge nell’Uno ogni determinazione razionale tendendo ad annullarla, e tutto il soggettivismo che cerca giustificazione nel criticismo kantiano etc.


Diversi modi di esprimere la quaestio de universalibus: ciò che è comune, ha realtà? Il nesso tra pensiero ed essere, tra soggetto e oggetto, è una relazione vivente, fonda una totalità?


* * *


Le Urworte di Goethe.

Daimon-Sole: l’intima necessità, l’essenza, la forma sostanziale, la ghianda, il centro, “porta a termine il contratto dell’anima col tutto”.

Tyche-Luna: la fortuna, gli accidenti, la materia come alterità, potenzialità, cibo (l’anna vedantico) che l’entelechia assimila, “porta a termine il contratto del tutto con l’anima”.

I due serpenti, le due correnti si intrecciano sull’asse centrale. Il loro bacio è Eros (Venere): congiungimento di bocche, di logoi, reciproca fusione di fiati, di pneumata; intersezione, nell’istante dello sguardo, di sé ed altro, dell’identità che si rispecchia narcisisticamente e dell’alterità che trae fuori dal consueto, di necessità e casualità. L’eros cosmogonico, l’Afrodite-Philotes di Empedocle foggia il composto organico, la physis, la ghenesis, l’unità dinamica di eidos e hyle. Eros è l’anima, è Ermes-Afrodite, è il movimento del cosmo verso Dio, è l’epistrofè, è la conoscenza congetturale umana come movimento dialettico dalla rappresentazione alla presenza contemplativa.

Il nodo inferiore che le serpi intrecciano sull’asse è Ananke (Saturno?): destino e caso, sé ed altro si radicano in un’unità profonda e inconscia che si manifesta come necessità che limita desideri e passioni, come traccia petrosa del carattere, come persistenza e invarianza per cui interno ed esterno si consumano reciprocamente, in un accordo discorde sempre più doloroso-purificante. Ananke è la morte progressiva del desiderio che progressivamente rivela l’anima nella sua scaturigine noetica, intellettuale: ma può vivificarla solo facendole prendere le ali di Elpis, che è Mercurio stesso, sostanza sottile e dinamismo dell’intero caduceo. Elpis è il possibile che fa accedere istantaneamente al reale, è l’apertura del destino al Bene, sua origine e meta.

(Per completare il settenario dei pianeti mancano i nodi di Marte e Giove).


Il limite della henologia platonico-plotiniana mi sembra stia in questo: che concepisce l’Uno ancora dal punto di vista dell’intelletto, del Nous. Ma perché la realtà sia davvero hen-kaì-pân, hen-kaì-pollà, bisogna che la trascendenza apofatica dell’Uno non sia colta come il negativo dell’Intelletto, come la negazione pura e semplice del suo oggetto. L’Uno platonico-plotiniano è soprattutto il Bene, ma la sua semplicità sovraintellettuale e sovraessenziale andrebbe piuttosto intuita-pensata, in modo più dinamico, nel punto eterno di distinzione/contatto tra l’Uno e il Nous, quel principio amoroso e ipernoetico del Nous che riconcilia il platonismo con Parmenide (il cuore di Aletheia è l’Uno nella sua non-ipostatizzazione, colto dinamicamente e senza porre un “oltre-la-manifestazione” – un “dentro”, semmai, ma un’interiorità vivente, organica) e lo apre alla Trinità cristiana.

Nessun commento:

Posta un commento