Si
dice: “Chi lascia la via vecchia per la nuova, sa quel che lascia, ma non sa
quel che trova”. Naturalmente lo stesso vale per chi fa l’apparente contrario:
chi si attiene al consueto sa quel che lascia – ovvero il nuovo, l’ignoto – e
non sa quel che trova, perché l’abitudine è la foresta degli enigmi, il
cancello sbarrato del mistero, il muro della città perduta.
Modesta
proposta per reintrodurre un po’ di pensiero e pratica della magia nelle nostre
tele ragne di differimenti illimitati e spettrali: sperimentare, in pubblico,
delle maledizioni unilaterali o reciproche, formulate con retorica giustezza,
in modo solenne e meticoloso. All’inizio i testimoni proverebbero un’ironica
indifferenza, poi un inquieto fastidio, infine un terrore purissimo. Quando la
ragione cercherà di ritornare su questo terrore, di analizzarlo, di pensarlo,
le si strapperà il nervo sciatico.
Dio
punisce come un generale assiro: “Hai schiantato la testa alla casa del
malvagio, aprendola dalle fondamenta fino al collo” (Habbakuk 3, 13). Ma
l’impalamento del malvagio avviene per lo più nell’invisibile, o sulla soglia
tra visibile e invisibile, perché, come i dicono i rabbini ad Alessandro il
Macedone, “Satana è vincitore, è sempre vincitore”.
Secondo
Ibn ʻArabī, l’ordine di uccidere il figlio Isacco arriva ad Abramo in sogno. Il
padre dei credenti avrebbe dunque dovuto sottoporlo ad interpretazione,
cogliendone l’intreccio di traslati. Abramo, primo dei monoteisti, è stato
dunque anche il primo dei fondamentalisti: ma lo preserva e salva la sua fede,
ovvero la sua nuda percezione del nesso simbolico del tutto, che gli fa
rispondere, ad Isacco che non vede l’animale per l’olocausto, “Dio stesso
provvederà l’agnello, figlio mio”.
“Quanti
psicoanalisti ci vogliono per cambiare una lampadina?” “Ne basta uno, ma la
lampadina deve veramente voler cambiare” (barzelletta raccontata da James
Hillman a Michael Ventura. Qui la lampadina, che non dà luce se non stimolata
meccanicamente, è il “peso” dell’introduzione di Michaelstaedter, che non può
essere “persuaso”, ma solo manipolato dalla rettorica).
L’impero
costruisce le strade su cui viaggiano, in modo misteriosamente discontinuo, i
predicatori del suo sovvertimento: la democrazia distrugge le strade su cui
potrebbero viaggiare, in ordine rituale, i suoi umili sostenitori.
Mai si disse e pensò patria, nazione, come nel tempo
in cui quasi tutte le patrie erano già state divelte dai grandi disegni di
accentramento, spesso travestiti con vecchie insegne sacrali; mai si è detto
(non pensato), e si dice, società civile, come nel tempo in cui la società
civile autentica, costituita dai corpi intermedi, dagli istituti che
custodiscono le iniziazioni, è stata resa pressoché impossibile.
Harold
Bloom chiama “transunzione” il procedimento con cui un poeta, soprattutto un
poeta-vate, induce a credere che un racconto, un mito della tradizione,
storicamente anteriore a lui, emani in realtà da un suo atto creativo
superiore, indiscutibile. Maestro di transunzione è Dante: chi legge i versi
sublimi, platonici e crudeli, dell’invocazione ad Apollo,
“entra
nel petto mio, e spira tue,
sì
come quando Marsia traesti
de
la vagina de le membra sue”,
non
può fare a meno di pensare che le versioni antiche della storia, anzi tutte le
versioni possibili, non siano se non pallidi midrashim della sua – promossa a fonte scritturale, a condensazione
luminosa e brutale.
Yosef di Hamadan nel suo Sefer ṭaʻamè hammiṣwot (L’essenza dei comandamenti) scrive che le
unioni sessuali, in Dio, nel pleroma sefirotico, non possono che essere
incestuose, avvenire tra “persone” (parṣufim,
configurazioni personali) che condividono la stessa sostanza – il Padre, la
Madre, il Figlio, la Figlia che è Sorella del Figlio. All’uomo tale mimesi è
vietata per difetto di potenza: solo alcuni tra i patriarchi avevano una
statura spirituale sufficiente per andare (apparentemente) oltre lo steccato
della Legge. Così il cabbalista sfiora una sorta di antinomismo temperato, un
nietzscheanesimo abramico marginale.
Dalle
parti di Orgosolo si chiama “cara e gathile” (faccia di nuca, faccia come la
nuca) chi sia particolarmente inespressivo, con lineamenti di golem, livellati
dalla stupidità, dall’assenza di carattere. Da applicare a quasi tutti gli
occidentali d’oggi, privi di volto, privi di dharma, facce di nuca.
L’appartenenza a una fazione politica è molto simile
alla appartenenza o alla affiliazione tribale: legata al retaggio della
famiglia o del clan, o a contingenze, emergenze storiche che mobilitano gruppi
di persone in modo spesso casuale. Quando Solone, nella sua riforma
costituzionale, impose ad ogni cittadino di iscriversi a una fazione e di
restarle fedele in occasione di eventuali tensioni intestine, stava forse
cercando di ritualizzare la sorda guerra civile che gorgoglia sul fondo di ogni
polis: portando alla luce del nomos le fazioni altrimenti caotiche e prive di
contorni, il sapiente legislatore non poneva Atene solo sotto il patrocinio di
Apollo, ma anche di Dioniso, il dio della scena, del sacrificio e del komos, il dio della temperata ebbrezza
della polis.
“Maledetto
l’uomo che confida nell’essere umano” (Ger 17,5): il versetto più difficile da
comprendere, digerire, assimilare per i sentimentali, siano essi i teneri,
ingenui agnelli o i loro perfetti compari, gli agnelli delusi, i cinici
lupacci.
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