Sodoma
è l’Occidente. In Clarel Melville
dice che il male di Sodoma è quello compiuto sotto il colore di un bene ridotto
a decoro; così lo squalo nuota sotto le acque azzurre dell’Oceano Pacifico. Il
trattato talmudico Pirqè Avot
individua quattro diverse middot, ovvero
attributi-comportamenti, ethe: tra
quello del santo e quello del malvagio se ne trovano altri due. Il primo si può
esprimere con la formula: il mio è tuo e
il tuo è mio. Do ut des: è
l’amore che calcola, a tutti i livelli; i Padri dicono a chiare lettere che è
la middah dello ‘am ha-aretz, del ‘popolo della terra’, ovvero di colui che non
assorbe l’educazione spirituale, che non si mette sul cammino erotico del derash – l’uomo mondano, che segue il derek
eretz, le buone norme sociali, e gli bastano. L’altra middah ‘dice’: il mio è mio e
il tuo è tuo. Si può pensare che sia la middah
mediana, la ‘via di mezzo’: ma alcuni sostengono sia la middah di Sodoma. Ambiguità essenziale: come in Melville, il male
di Sodoma si veste da misura, è il gran male del ‘moderno’, dell’homo oeconomicus,
il veleno del capitalismo. Sodoma, secondo il commento, godeva di prosperità
nei suoi confini, ma non voleva condividerla con il povero e il miserabile. La
cautela, la mediocrità etica del risparmio e dell’accumulo è il peccato ‘troppo
grande’ che Dio punisce con il fuoco celeste.
Legame
secondario ma storicamente decisivo con il tema degli atti omosessuali.
Sembrerebbe disegnarsi un rapporto tra lo harpagmos,
il trattenere borghese, anale, e l’analità letterale della sodomia-buggery (la cui condanna è stata
connessa nel Medio Evo all’eresia dei bogomili, al loro dualismo teologico e
antinomismo morale). L’amore sessuale tra uomini come rifiuto di donare e
spartire le proprie ricchezze nella differenza dei generi, nell’esogamia: la
passione del commerciante come rifiuto del commercio
sacro, del sacrificio nuziale.
Sodoma
insozza l’ospitalità verso i tre stranieri-angeli. Accumulare ricchezza è
rifiutare lo xenos (1), l’angelo che
è il volto divino, la teofania. Rifutare l’angelo-ospite è volerlo conoscere: avere rapporti sessuali con
l’angelo è pretendere di possederlo, è una iniziazione al compagnonnage della ricca città borghese che si appiattisce e
appiattisce nella sua mediocrità; ed è anche, secondo l’accezione primaria del
verbo yadaʻ, la pretesa di conoscere appunto lo straniero, l’angelo, di
addomesticarlo, di penetrarlo.
Massignon
vede nella civiltà di Sodoma il modello delle grandi poleis antiche, greche, iafetite, fondate sulla stratificazione
delle confraternite, sull’intreccio delle corporazioni iniziatiche di mestiere.
Lì si opera una ‘divisione del lavoro’: la donna nel gineceo custodisce la
lingua materna della tradizione carnale e culturale, l’uomo nella confraternita
viene plasmato da un eros che ha una radice spirituale, angelica, ma tende a
degradarsi – dualisticamente – nell’oscillazione fra angelismo e possessione
carnale-demoniaca, amore tra forzati e reclute. Langer vede invece in quella
distinzione la passione semitica per
la totalità: la cultura religiosa ebraica tiene insieme la santità delle nozze,
il sacrificio del talamo, e l’eros maschile del derash, della confraternita spirituale, della ricerca comune.
Abramo intercede anzitutto per Sodoma, cercando di strapparla al fuoco di Dio,
al suo giudizio rigoroso, fa appello alla Sua misericordia e alla Sua
giustizia, evoca con la sua fede un piccolo resto di santi intercessori. Così a
Massignon la trasfigurazione del legame omoerotico sodomita si presenta nella
prova del sineisactismo: un abbraccio
casto che sollecita e compie il jihad,
la santa lotta interiore; tutto ciò sarebbe in un certo senso anticipato,
tipologicamente, dall’omoerotismo classico, da Socrate alla falange tebana.
Ma
davvero è così decisivo il legame tra Sodoma e la sodomia, tra la sua ambigua middah (mediocrità-eccesso di peccato) e
l’omosessualità? Nella Bibbia e nel pensiero rabbinico sembrerebbe di no. È
stata la sensibilità cristiana a collegare gli atti omosessuali maschili – la
penetrazione anale che il Levitico giudica abominevole perché teurgicamente
attiva un ritorno al caos, in quanto l’uomo
giace come una donna (ed è dunque una lesione della Shekhina,
cristianamente della verginità feconda di Maria) – sia all’idea tardoantica di
diritto naturale e alla sua concezione del matrimonio, sia alle grandi eresie
dualiste, alla loro avversione per la perpetuazione della comunità permixta anche con l’instaurazione di
rapporti omoerotici, che in molti casi si trovavano associati, più o meno
fantasticamente, a rituali di iniziazione sentiti come antinomistici o
addirittura diabolici. L’ano è tanatico, diabolico, parodia infeconda del vas naturale mulieris, a cui è così
significativamente vicino.
Più
segreta in Occidente rispetto all’Islam la via di una pederastia per così dire
sospesa sul crinale, liminare, vissuta nella tensione teofanica e dunque ars specularis, sempre minacciata da
tutti gli effluvi mortali del narcisismo. Ma la condanna dell’atto omosessuale
è comune: comprensibile solo in una visione teurgica, che rende l’atto
responsabile di riparazioni e guasti in
divinis, o nel mondo immaginale, mediano. Basta nulla, e il sistema di veti
diventa ogni volta l’ipocrisia nauseante del ‘diritto naturale’, la confusione
tra precetto sacerdotale e imposizione giuridica. Ma pare sia fatale nella
religione rivelata, nel suo pathos
incarnante e disincarnante insieme. Tuttavia anche il mondo non abramico, di
solito più tollerante, guarda con disprezzo alla sottomissione erotica
dell’uomo libero: idea filosofico-ascetica, con forti radici nell’ethos guerriero, che sembra collegare
quella pur dolorosa sottomissione al periodo purgatoriale dell’addestramento
della recluta, il suo dileggio iniziatico. Forse è qui che Massignon sente quel
morbido odore di violenza cameratesca, che rende l’anima e il corpo pronti a
tutto, perinde ac cadaver: un ideale
che però si continua a coltivare anche nelle confraternite spirituali del mondo
abramico, in modo più o meno tralignante rispetto al modello. Massignon
individua i rischi mortiferi del compagnonnage,
e pur parlando da martire dell’omoerotismo sta indicando la terra di confine,
l’anima che regge e plasma il corpo fisico. E non è certo vietando con orrore i
contatti omosessuali che si bonifica quell’aria oscura gonfia di miasmi e
promesse. D’altronde in questa dialettica anche il matrimonio si fa igienico e
ipocrita, la confusione della confraternita si rovescia all’esterno nella
confusione sacerdotale-giuridica del ménage.
La cultura è il mondo sospeso dell’anima, ma il mondo storico e umano è appunto
il mostro informe in cui l’anima è chiamata a restare senza appartenergli:
sembra inevitabile, una volta affacciati da quel mondo altro e non
letteralizzabile, oscillare tra compromessi in cui il mondo umano vince sempre
e un atteggiamento profondamente doppio, una super-ipocrisia, che tratta il
mondo umano con la leggerezza inquietante della spia – atteggiamento anch’esso
esposto, un istante dopo l’altro, alle ricadute, anzi alla Caduta. Nient’altro
che questo sarebbe il jihad maggiore
di cui parla il Profeta. E in questo la negazione mondano-spirituale
dell’omosessualità si fa chiave, rapporto irrazionale (in senso matematico) per
accedere non solo a una riscoperta dell’omoerotismo nella sua archè (una epistrofè dell’omoerotismo, insomma), ma tout-court a un eros liberato dai dilemmi giuridico-spirituali,
fluttuante ed esatto come la Bilancia dei sufi nella relazione immaginale e non
binaria tra batin e zahir.
Come
riportare tutto questo alla Sodoma dei Pirqe
Avot, di Melville? All’Occidente livellatore e rapace, alla radice sodomita
del capitalismo? Il mio è mio e il tuo è
tuo: qui manca il passo, decisivo, che il santo compie, lasciando all’altro
il suo e donandogli al contempo il proprio (il santo dice, secondo i rabbini, il mio è tuo e il tuo è tuo). Il
sodomita occidentale, il ‘mediocre’ che mantiene un equilibrio ipocrita,
nauseante per Dio, sembrerebbe oscuramente chiedere al fuoco celeste di
dissolvere questo suo abbarbicamento, quest’ultima e prima catena che lo rende
vicino al prossimo e così infinitamente, essenzialmente lontano. L’intercessore
segreto dovrebbe distillare il fuoco distruttore, il fuoco dell’epidemia
divina, riconducendolo al suo statuto di dissolvitore dionisiaco della cautela
da squalo, dell’appostamento predatorio, di quell’harpagmos che è, sul piano teologale, il vero ‘oggetto’ della
rinuncia-kenosis divina? Così
facendo, tra l’altro, opererebbe anche il ta’wil
dell’omofobia in senso proprio, ovvero quella rinuncia che si percepisce
angosciosamente come castrazione, come mutilazione della maschilità fragile e
unilaterale: paradossalmente, Sodoma segue la middah di Sodoma proprio nella misura in cui si difende da questa
castrazione archetipica. Sodoma è chiusa in se stessa, ed è sodomita, proprio
perché vorrebbe conoscere l’alterità, l’angelo-ospite, appunto con lo stile
erotico dell’iniziazione maschile attiva, stuprante, senza assorbirne la
debolezza e la giovanile, eterna energia con un decisivo (in senso etimologico)
atto di rinuncia in direzione dell’androginia, dell’ospitalità messianica oltre
la lettera della Rivelazione. Sodoma è dunque davvero apocalittica, e chiama il
fuoco, la Pentecoste che consuma senza distruggere.
Sodoma
ci parla insomma, tra le righe della codificazione giuridica che ha fatto del
sacerdozio nuziale un mostruoso idolo, proprio della radice archetipica in cui
si intrecciano la sodomia che rifiuta l’alterità e la paura della ‘sodomia’
come paura dell’androginizzazione messianica.
Note:
(1)
Lo xenos è lo straniero greco, contrapposto al barbaros o non-greco. Quand’è che il barbaro è xenos?
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