Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 2 settembre 2013

Sodoma


Sodoma è l’Occidente. In Clarel Melville dice che il male di Sodoma è quello compiuto sotto il colore di un bene ridotto a decoro; così lo squalo nuota sotto le acque azzurre dell’Oceano Pacifico. Il trattato talmudico Pirqè Avot individua quattro diverse middot, ovvero attributi-comportamenti, ethe: tra quello del santo e quello del malvagio se ne trovano altri due. Il primo si può esprimere con la formula: il mio è tuo e il tuo è mio. Do ut des: è l’amore che calcola, a tutti i livelli; i Padri dicono a chiare lettere che è la middah dello ‘am ha-aretz, del ‘popolo della terra’, ovvero di colui che non assorbe l’educazione spirituale, che non si mette sul cammino erotico del derash – l’uomo mondano, che segue il derek eretz, le buone norme sociali, e gli bastano. L’altra middah ‘dice’: il mio è mio e il tuo è tuo. Si può pensare che sia la middah mediana, la ‘via di mezzo’: ma alcuni sostengono sia la middah di Sodoma. Ambiguità essenziale: come in Melville, il male di Sodoma si veste da misura, è il gran male del ‘moderno’, dell’homo oeconomicus, il veleno del capitalismo. Sodoma, secondo il commento, godeva di prosperità nei suoi confini, ma non voleva condividerla con il povero e il miserabile. La cautela, la mediocrità etica del risparmio e dell’accumulo è il peccato ‘troppo grande’ che Dio punisce con il fuoco celeste.
Legame secondario ma storicamente decisivo con il tema degli atti omosessuali. Sembrerebbe disegnarsi un rapporto tra lo harpagmos, il trattenere borghese, anale, e l’analità letterale della sodomia-buggery (la cui condanna è stata connessa nel Medio Evo all’eresia dei bogomili, al loro dualismo teologico e antinomismo morale). L’amore sessuale tra uomini come rifiuto di donare e spartire le proprie ricchezze nella differenza dei generi, nell’esogamia: la passione del commerciante come rifiuto del commercio sacro, del sacrificio nuziale.
Sodoma insozza l’ospitalità verso i tre stranieri-angeli. Accumulare ricchezza è rifiutare lo xenos (1), l’angelo che è il volto divino, la teofania. Rifutare l’angelo-ospite è volerlo conoscere: avere rapporti sessuali con l’angelo è pretendere di possederlo, è una iniziazione al compagnonnage della ricca città borghese che si appiattisce e appiattisce nella sua mediocrità; ed è anche, secondo l’accezione primaria del verbo yadaʻ, la pretesa di conoscere appunto lo straniero, l’angelo, di addomesticarlo, di penetrarlo.
Massignon vede nella civiltà di Sodoma il modello delle grandi poleis antiche, greche, iafetite, fondate sulla stratificazione delle confraternite, sull’intreccio delle corporazioni iniziatiche di mestiere. Lì si opera una ‘divisione del lavoro’: la donna nel gineceo custodisce la lingua materna della tradizione carnale e culturale, l’uomo nella confraternita viene plasmato da un eros che ha una radice spirituale, angelica, ma tende a degradarsi – dualisticamente – nell’oscillazione fra angelismo e possessione carnale-demoniaca, amore tra forzati e reclute. Langer vede invece in quella distinzione la passione semitica per la totalità: la cultura religiosa ebraica tiene insieme la santità delle nozze, il sacrificio del talamo, e l’eros maschile del derash, della confraternita spirituale, della ricerca comune. Abramo intercede anzitutto per Sodoma, cercando di strapparla al fuoco di Dio, al suo giudizio rigoroso, fa appello alla Sua misericordia e alla Sua giustizia, evoca con la sua fede un piccolo resto di santi intercessori. Così a Massignon la trasfigurazione del legame omoerotico sodomita si presenta nella prova del sineisactismo: un abbraccio casto che sollecita e compie il jihad, la santa lotta interiore; tutto ciò sarebbe in un certo senso anticipato, tipologicamente, dall’omoerotismo classico, da Socrate alla falange tebana.
Ma davvero è così decisivo il legame tra Sodoma e la sodomia, tra la sua ambigua middah (mediocrità-eccesso di peccato) e l’omosessualità? Nella Bibbia e nel pensiero rabbinico sembrerebbe di no. È stata la sensibilità cristiana a collegare gli atti omosessuali maschili – la penetrazione anale che il Levitico giudica abominevole perché teurgicamente attiva un ritorno al caos, in quanto l’uomo giace come una donna (ed è dunque una lesione della Shekhina, cristianamente della verginità feconda di Maria) – sia all’idea tardoantica di diritto naturale e alla sua concezione del matrimonio, sia alle grandi eresie dualiste, alla loro avversione per la perpetuazione della comunità permixta anche con l’instaurazione di rapporti omoerotici, che in molti casi si trovavano associati, più o meno fantasticamente, a rituali di iniziazione sentiti come antinomistici o addirittura diabolici. L’ano è tanatico, diabolico, parodia infeconda del vas naturale mulieris, a cui è così significativamente vicino.
Più segreta in Occidente rispetto all’Islam la via di una pederastia per così dire sospesa sul crinale, liminare, vissuta nella tensione teofanica e dunque ars specularis, sempre minacciata da tutti gli effluvi mortali del narcisismo. Ma la condanna dell’atto omosessuale è comune: comprensibile solo in una visione teurgica, che rende l’atto responsabile di riparazioni e guasti in divinis, o nel mondo immaginale, mediano. Basta nulla, e il sistema di veti diventa ogni volta l’ipocrisia nauseante del ‘diritto naturale’, la confusione tra precetto sacerdotale e imposizione giuridica. Ma pare sia fatale nella religione rivelata, nel suo pathos incarnante e disincarnante insieme. Tuttavia anche il mondo non abramico, di solito più tollerante, guarda con disprezzo alla sottomissione erotica dell’uomo libero: idea filosofico-ascetica, con forti radici nell’ethos guerriero, che sembra collegare quella pur dolorosa sottomissione al periodo purgatoriale dell’addestramento della recluta, il suo dileggio iniziatico. Forse è qui che Massignon sente quel morbido odore di violenza cameratesca, che rende l’anima e il corpo pronti a tutto, perinde ac cadaver: un ideale che però si continua a coltivare anche nelle confraternite spirituali del mondo abramico, in modo più o meno tralignante rispetto al modello. Massignon individua i rischi mortiferi del compagnonnage, e pur parlando da martire dell’omoerotismo sta indicando la terra di confine, l’anima che regge e plasma il corpo fisico. E non è certo vietando con orrore i contatti omosessuali che si bonifica quell’aria oscura gonfia di miasmi e promesse. D’altronde in questa dialettica anche il matrimonio si fa igienico e ipocrita, la confusione della confraternita si rovescia all’esterno nella confusione sacerdotale-giuridica del ménage. La cultura è il mondo sospeso dell’anima, ma il mondo storico e umano è appunto il mostro informe in cui l’anima è chiamata a restare senza appartenergli: sembra inevitabile, una volta affacciati da quel mondo altro e non letteralizzabile, oscillare tra compromessi in cui il mondo umano vince sempre e un atteggiamento profondamente doppio, una super-ipocrisia, che tratta il mondo umano con la leggerezza inquietante della spia – atteggiamento anch’esso esposto, un istante dopo l’altro, alle ricadute, anzi alla Caduta. Nient’altro che questo sarebbe il jihad maggiore di cui parla il Profeta. E in questo la negazione mondano-spirituale dell’omosessualità si fa chiave, rapporto irrazionale (in senso matematico) per accedere non solo a una riscoperta dell’omoerotismo nella sua archè (una epistrofè dell’omoerotismo, insomma), ma tout-court a un eros liberato dai dilemmi giuridico-spirituali, fluttuante ed esatto come la Bilancia dei sufi nella relazione immaginale e non binaria tra batin e zahir.
Come riportare tutto questo alla Sodoma dei Pirqe Avot, di Melville? All’Occidente livellatore e rapace, alla radice sodomita del capitalismo? Il mio è mio e il tuo è tuo: qui manca il passo, decisivo, che il santo compie, lasciando all’altro il suo e donandogli al contempo il proprio (il santo dice, secondo i rabbini, il mio è tuo e il tuo è tuo). Il sodomita occidentale, il ‘mediocre’ che mantiene un equilibrio ipocrita, nauseante per Dio, sembrerebbe oscuramente chiedere al fuoco celeste di dissolvere questo suo abbarbicamento, quest’ultima e prima catena che lo rende vicino al prossimo e così infinitamente, essenzialmente lontano. L’intercessore segreto dovrebbe distillare il fuoco distruttore, il fuoco dell’epidemia divina, riconducendolo al suo statuto di dissolvitore dionisiaco della cautela da squalo, dell’appostamento predatorio, di quell’harpagmos che è, sul piano teologale, il vero ‘oggetto’ della rinuncia-kenosis divina? Così facendo, tra l’altro, opererebbe anche il ta’wil dell’omofobia in senso proprio, ovvero quella rinuncia che si percepisce angosciosamente come castrazione, come mutilazione della maschilità fragile e unilaterale: paradossalmente, Sodoma segue la middah di Sodoma proprio nella misura in cui si difende da questa castrazione archetipica. Sodoma è chiusa in se stessa, ed è sodomita, proprio perché vorrebbe conoscere l’alterità, l’angelo-ospite, appunto con lo stile erotico dell’iniziazione maschile attiva, stuprante, senza assorbirne la debolezza e la giovanile, eterna energia con un decisivo (in senso etimologico) atto di rinuncia in direzione dell’androginia, dell’ospitalità messianica oltre la lettera della Rivelazione. Sodoma è dunque davvero apocalittica, e chiama il fuoco, la Pentecoste che consuma senza distruggere.
Sodoma ci parla insomma, tra le righe della codificazione giuridica che ha fatto del sacerdozio nuziale un mostruoso idolo, proprio della radice archetipica in cui si intrecciano la sodomia che rifiuta l’alterità e la paura della ‘sodomia’ come paura dell’androginizzazione messianica.
Note:

(1)   Lo xenos è lo straniero greco, contrapposto al barbaros o non-greco. Quand’è che il barbaro è xenos?

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