Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 28 settembre 2013

Qualche riflessione sul presente


La stessa concezione diffonde i suoi raggi su vari fenomeni contemporanei.
I ‘femminicidi’ (definizione ideologica che maschera la reale crescita di omicidi di donne da parte dei loro compagni in seguito al fallimento della relazione) testimoniano la difficoltà della psiche maschile (da non identificare letteralisticamente con la psiche dei maschi) a reggere l’incertezza dei rapporti d’amore e coniugali, a loro volta confusi in un groviglio difficile da districare. La ‘psiche maschile’ investe molto sulla sicurezza del rapporto, posto al riparo di un logos, di una promessa: è un atteggiamento proprietario che soffoca la libertà dell’amore, ma è anche l’ombra invigliacchita – privata cioè della sua immaginazione militante – dell’antica idea di voto. O è un contratto, in cui si giura, o è cristianamente un voto, in cui ci si abbandona a Dio: in entrambi i casi il tradimento è percepito come una diserzione, una lacerazione dell’unità. Oggi si sente il vincolo nuziale o semplicemente di coppia (già questa è una confusione significativa) come un ‘contratto libero’: ma la libertà dell’amore è un ideale assai elevato, che non può essere letteralizzato nei rapporti quotidiani, dove diventa semmai il disorientamento di legami privi di struttura.
Qualcosa di analogo è accaduto nell’economia, nel lavoro: lo stesso subdolo invito all’“avventura”. La vita è rischio, amici miei! Sì, ma la vita associata è appunto un esperimento per contenere quell’angoscia radicale, pungolo di ogni cerca romantica ma anche veleno di ogni miseria. Dire oggi che ‘il lavoro non è un diritto’ è un altro trucco, un po’ meno abile perché ancor meno digeribile (non sferza, flagella): il lavoro non è forse un diritto, ma la sussistenza lo è, e poiché nelle società avanzate contemporanee non c’è che il lavoro per ottenere la sussistenza (l’alternativa è una miseria men che servile, o una rivoluzione interiore da esseni, da stoici), il lavoro dev’essere considerato un diritto.
A scuola si consegnano ai ragazzi fossili impolverati e chiacchiere post-moderne, ovvero vecchiume innocuo e nociva ideologia senza bussola: quando sono ridotti alla perfetta viltà, al vittimismo, all’impotenza rancorosa, si dice loro con un sorriso orribilmente sussiegoso: “Beh, cosa credevate? La vita è rischio. Nel mondo del lavoro dovete vedervela con i cinesi e gli indiani, che faticano quindici ore al giorno e percepiscono un decimo dello stipendio dei vostri padri viziati. Datevi da fare, adattatevi o inventatevi qualcosa etc.”.
I legami d’amore fanno parte della comunità, anzi la costruiscono. Solo in un’epoca come la nostra si può credere che siano una zona franca, neutrale: retaggio di un cattivo romanticismo e di un asservimento delle coscienze sempre più capillare – la solita alleanza moderna tra sentimentalismo e oppressione. Si cresce con l’idea che l’amore sia il cuore pulsante dell’esistenza, e la si trova quasi sempre congiunta alla centralità del matrimonio e della famiglia: poi, si sa, la vita è rischio, e un matrimonio può crollare per motivi meno gravi che in passato, e virtualmente ad ogni istante; non solo, si è così imbevuti di quella bizzarra filosofia del piacere e dell’eternità – un piacere fasullo e un’eternità fasulla – in cui si mescola l’incantesimo dell’era consumistica con l’idea, intimamente connessa, del sentimentalismo come lubrificante della macchina, che questa intossicante contraddizione non regge alle reali antinomie del reale sentimento, quella funzione razionale di cui Jung conosceva lo spessore culturale.
Come sempre, i crimini di un’epoca sono il sogno collettivo di un’epoca: lo dice l’Ulrich di Musil a proposito dell’assassino di prostitute Moosbrugger. Non saper riconoscere questo sogno è un male antico come l’uomo: oggi, senza più alcuna cultura cresciuta dalla terra dell’uomo (ogni ‘cultura’ è  sostituita dal rifornimento di merci e di servizi), l’impossibilità di trovare rituali comuni, immagini del mondo comuni, sembra portare obbligatoriamente alla richiesta di una maggiore erogazione di sicurezza da parte delle agenzie preposte. L’assenza di sicurezza interiore costringe a chiedere un airbag sempre più sicuro, una rete di protezione sempre più fitta. Si dimentica persino l’ovvio, che ogni ulteriore legge e provvedimento e tecnica sociale e giuridica non può non recare con sé un’ulteriore contrazione degli spazi di libertà. La coppia, la diade, ha bisogno di aria, dunque, per curarne i veleni, si simula un’emergenza e si affretta la messa a punto di ‘gabbie’ che tolgono la poca aria rimasta – come l’impossibilità di ritirare una denuncia in caso di violenze. Poiché non esiste più una famiglia per proteggere da abusi come la persecuzione e le minacce, si danno più poteri all’antico avversario e giudice della famiglia, lo Stato (che in molti casi, beninteso, ha il diritto di interferire e giudicare, ma dopo aver compiuto tutti i riti sacri e le ragionevoli inquisizioni sulla soglia della casa).
Non diversamente: cresciamo con un’idea sempre più scolorita di appartenenza nazionale, ma sappiamo benissimo di non avere, di non essere più le antiche patrie e le più recenti nazioni. Lo sradicamento rende fragili e violenti, come uomini abbandonati dalle donne (o che tali si percepiscono). Anche il cosmopolitismo è un grande ideale filosofico che, letteralizzato, si fa distruttore di forme e di limiti. Se non devo combattere per le mie patrie (non ne abbiamo, non ne avevamo mai una sola), perché devo combattere per il focolare? Se l’ideale proposto a tutti è quello del ricco pirata che ha quattro passaporti, case in tutti i paesi del mondo e soldi in tutte le casse, a quale ideale finirà per conformarsi la vita affettiva? Qui resistono presso il popolo, gli ex-poveri, oggi avviati a una nuova miseria da candala, antichi pregiudizi favorevoli alla convivialità, al calore domestico, alla costruzione di una famiglia come opera di una vita: ma senza la consapevolezza militante che si tratta di ideali minacciati, anzi, con il dubbio persistente (instillato dall’atmosfera collettiva) che in fondo si possa fare, volendolo, tutto o un po’ di tutto (lo slogan del supermercato), non si può né resistere alla dissoluzione né nuotarvi dentro. Si viene comicamente smembrati, come accade sempre a chi non è o insediato nell’élite potente di un’epoca o nutrito dallo spirito sempiterno delle consuetudini.

Occorre distinguere tra la sicurezza di una casa, che uno si costruisce da sé, e la sicurezza del rifornimento costante di merci e servizi, che soffoca ogni autentico spirito civico e ogni freschezza morale superstite. Anche se esistono i benefici iniziatici dei rischi e della miseria, una comunità deve lasciare che ciascuno abbia la sua ousia, la proprietà che lo pone al riparo dalle fluttuazioni avverse e gli dà agili fondamenta per l’opera di una vita. Il nesso tra proprietà e matrimonio non dev’essere visto solo alla luce della – giusta – critica anticapitalista, socialista e romantica. Esiste certo anche un fermento dionisiaco che punta al di là del matrimonio e della polis recintata, ma negli ultimi decenni si è proceduto piuttosto a normalizzare e normare le spinte dissolutrici-rivoluzionarie e a rendere dissolvente la normalità: una condizione che non dovrebbe essere durevole, anche se non ci si può giurare.

Secondo uno studioso, Penso de la Vega vedeva nel nascente capitalismo finanziario (primo crack della borsa nell’Olanda del XVII secolo, piena di profughi ebrei) qualcosa della dialettica sabbatiana: il messia scende tra le qelippot per redimerle, lo speculatore si inabissa nell’irrealtà tormentosa del gioco finanziario per trarre ricchezza dal nulla. Vi è un’alchimia tenebrosa in questa intuizione, che si nutre di echi gnostici ed ermetici. La maledizione religiosa dell’usura non è mai stata veramente efficace: la dissoluzione dell’Ordine viene sentita come l’opportunità di scatenare gli egoismi individuali alla ricerca del bene comune, albeggia l’idea liberale-liberista. Già Davanzati parla biblicamente di ‘apertura degli occhi’ a proposito della rivoluzione dei cambi: si svela l’illusionismo del denaro, aspetto di quell’illusionismo occidentale-rinascimentale individuato da Florenskij. Hoelderlin dice che la dissoluzione del reale fa emergere il possibile, e il possibile viene colto come sogno, fermentazione di immagini escluse dal gioco del quotidiano, dal proscenio illuminato dei principi condivisi. L’homo oeconomicus sorge anzitutto come individuo isolato dalla comunità, liberato dai vincoli tradizionali, dalle consuetudini sentite come opache, passivamente accettate. La religione non è più il contenitore (in tutti i sensi) dell’angoscia, che ora diviene disponibile per inedite creazioni politiche, sociali, culturali: secondo Benjamin il capitalismo è una religione inconscia, che invece di promettere espiazione moltiplica l’angoscia della colpa-indebitamento attraverso una struttura di totale opacità, un ritualismo ossessivo che si nega per principio alla visione in trasparenza di una consapevolezza distinta da esso. In questo senso, l’aggettivo totalitario gli spetta kat’exochèn (intuizione di Pasolini sul rapporto tra fascismo-fascismi e neocapitalismo consumistico). Le varie crisi sono state apocalissi abortite: non è ancora giunto il suo autunno, nel senso dell’autunno del Medioevo indicato da Huizinga. Come molte religioni, potrebbe sopravvivere svuotato, inefficace: ma il suo statuto di religione solo-cultuale glielo consentirà? Non avendo teologia, come potrebbe resistere all’abbandono dei suoi riti, alla rovina dei suoi templi ed altari? A meno che la sua teologia non sia tutta l’ideologia del moderno, come sembra piuttosto probabile, nonostante non vi sia perfetta coincidenza – e d’altronde non c’è mai. In questa crisi non si sente appunto aria di krisis, di revolutio, perché ciò presuppone l’ermergere, insieme alla dissoluzione del vecchio e ad essa confuso, di una nuova forma mentis, una nuova griglia epistemologica congiunta ad un sentire finalizzato e non smarrito.
 
Illich: oggi tendiamo a confondere genere e sesso. Il genere è una creazione culturale e postula una complementarità, il sesso è la differenza naturale di un’unica specie, concepita astrattamente come ‘umanità’, e tendente a identificarsi con l’homo oeconomicus. La discriminazione è possibile solo con la divisione sessuale, in cui c’è competizione e dualità proprio a causa dell’assenza di qualità dell’umano. Il male proprio del genere è la confusione tra simboli e individui: inoltre la lettura della diade è viziata dalla preponderanza ‘essoterica’ del maschile, l’elemento ‘apollineo’, ‘paterno’. Il potere, il dare la morte, la differenziazione sociale sono dalla parte del maschile: il femminile viene ridotto a ricettacolo, parallelamente alla perdita di sostanza mistica della venerazione per la Terra, gli vengono imposti la continuità della tradizione (la generazione della prole e la sua prima educazione, la ‘lingua materna’ della cultura, l’oralità), la custodia sacerdotale della vita e della integrità (Chesterton), sempre a rischio di ‘santificazione’ e dunque di separazione dalla zoè divina vera e propria. Leggendo Hillman e Zolla si può presagire che, alla fine dell’era del sesso, dopo il tempo dell’Operaio e quello del Candala, stia emergendo come possibilità non l’umano senza qualità brutalmente/sentimentalmente sessuato, ma l’androginia dionisiaca, il rimescolamento di sessi e generi. Tema del genere e del trans-genere: si tende a superare proprio il genere come costruzione culturale, ma la direzione del movimento sembra oscillare tra il carnevale del Gay Pride e le rivendicazioni di un diritto alla normalità e alla norma. Più liminari, borderline, le riflessioni sull’intersessualità: mostra, proprio perché mostruosa, che la divisione sessuale non è meno artificiale o comunque dubbia e incerta della distinzione tra i generi. Nella favoletta di Fedro Prometeo foggia i sessi separatamente dai corpi degli uomini (sexus, da secare): poi viene invitato da Dioniso, si ubriaca e alcuni li attacca in modo erroneo, creando così gli invertiti, tribades e molles mares, lesbiche ed effeminati. Dietro il dileggio del maschio romano c’è l’antica idea di un Dioniso androgino, molle, signore delle donne, dissolutore dell’ordine politico chiuso. Questa ebbrezza del demiurgo si traduce nelle nostre vertigini, nel fascino e nella ripugnanza che suscitano in noi gli stati intersessuali ancor più che la donna-uomo (con il pene ovvero dotata di un clitoride ipertrofico) e l’uomo-donna (con un culo-vagina), scherzacci perpetui da caserma. D’altronde si tratta di scherzacci che il nostro tempo ha trasformato in realtà politiche e sociali: l’uomo-donna è l’isterico delle masse fasciste e comuniste e il passivo cinedo del potere pubblicitario, in entrambi i casi un vile senza spirito civico, un lussurioso inerte, così come la donna-uomo è quella gettata nella competizione economica in uno stato di permanente inferiorità, alla ricerca del solito potere fragile – ma, come osserva Chesterton, appunto senza più la consapevolezza che non c’è potere senza la facoltà di dare la morte, di partecipare alla sedizione collettiva. L’unione sessuale e oltre i generi dell’uno e dell’altro mostriciattolo ha per risultato la fittizia e realmente impotente democrazia del nostro evo. L’esplosione dei generi non ha ancora traghettato l’uomo al di là del sesso e dunque del taglio originario: la rivoluzione dell’androginia andrebbe nella direzione di una maggiore completezza e fluidità, di cui per ora si rilevano solo cenni grottescamente parodistici.
Certo è vero, come dicono i critici queer, che il genere è una costruzione culturale: tuttavia è indubbiamente legata, in modo confuso, alla constatazione della differenza sessuale. Si può dire che il genere è costruito sul sesso, ma anche, secondo il filosofico linguaggio antico, che la differenza sessuale è la manifestazione, nella materia, della diade simbolica, eternamente intrecciata sul caduceo. Gli stati intersessuali o le inclinazioni erotico-sessuali contrarie al sesso apparente della nascita sono, come ogni eccezione all’interno di un ordine fluttuante fra simbolo e carne, gli ‘anelli deboli’ che fanno accedere a una superiore unità, come le deformità e le malattie iniziatiche, come la malinconica, pessima tra le complessioni naturali e dunque possibile via al soprannaturale, come l’essere – culturalmente e individualmente – senza qualità o proprietà di Ulrich è il punto di partenza della sua trasfigurazione in mistico, ‘senza proprietà’ nel senso dei renani.

‘Femminicidio’. Il maschile di oggi ha il pene fragile dell’impotenza, in ogni senso possibile. Il legame d’amore più incerto lo fa sentire castrato, e dalla ferita sgorga un sangue psichico che si traduce nel versamento del sangue femminile. Nella coppia divina la Dea divora il pene del dio-fratello e lo sostituisce con un pene di fango o di cera, molle, un linga-sarira, un corpo di sogno. Un tempo l’uomo accettava semiconsciamente questa operazione umiliante diventando il fuco della casa, il pesce fuor d’acqua, in cerca di cameratismo e avventure erotiche all’esterno. Oggi quel sangue non trova nessun contenitore, e nella psiche maschile, violenta per debolezza, il dolore non accolto diventa aggressività (in quella femminile tende a diventare sadismo o masochismo bianco, il veleno da fattucchiera che scorre nelle tragicommedie della narrazione popolare sul matrimonio).
Non ci si può limitare a reprimere i bruti – magari cercando, quando capita, di educarli a un astratto ‘rispetto’ – e ad insegnare alle donne le pur necessarie arti della difesa, ovvero un po’ di egoismo sano e saggio. Questa è una misura davvero troppo condizionata dalla sensazione, provocata a bella posta, dell’”emergenza sociale”. Se stesse davvero a cuore la verità, ovvero che si tratta semmai della nuova versione di un vecchio dramma culturale, si proverebbe a ripensare la coppia invece di lasciarla alle correnti di un mutamento rapinoso. Ma il sentimentalismo crudo è un’arma troppo preziosa per le forze sottili che hanno interesse a mantenere ed eventualmente peggiorare lo stato di impotenza e dunque di servitù dell’anima occidentale contemporanea. Il vecchio recinto del matrimonio era ormai diventato appunto solo un recinto, ma un recinto non è poco, specialmente quando il desiderio di uscirne all’impazzata viene deformato dalle interpretazioni mendaci e dagli interessi profondi, il più delle volte inconsci ai singoli, di un sacerdozio commerciale senza volto. (Anche qui Pasolini era un buon conservatore. Pochissimi sono stati, sempre, i rivoluzionari lucidi, o sarebbe piuttosto il caso di dire gli sperimentatori dell’immaginazione).
Capire non ideologicamente che i criminali sono sempre le teste su cui si addensa il male dell’epoca è l’impresa che riesce solo ai pensatori autentici, in cui l’indifferenza anarchica si congiunge a una compassione non sentimentale. Chi giudica è sempre già giudicato, per il fatto stesso di giudicare. Come rendere palpabile questa intuizione religiosa in un tribunale desacralizzato (ma anche sacro, il più delle volte), in una comunità che non sente i filamenti vivi della conjuratio? Ma è difficile e quasi impossibile in ogni tempo. In un certo senso la punizione è un privilegio: si vuol far comprendere al criminale che è stato vocato, che è un essere libero ovvero liberabile. Ma lo si getta in un purgatorio troppo simile all’inferno, non tanto per le condizioni esteriori quanto per il gran movimento ubriacante della massa di linciatori che si stringe intorno a lui. Gli si offre un percorso iniziatico ricoperto da mille veli pesanti, da maschere fuorvianti. D’altronde lui stesso ha imposto alla comunità lo stesso micidiale koan: come vendicarsi di lui, e poi che senso ha vendicarsi? Viviamo sempre nel gran teatro dei simboli, i nostri corpi vengono afferrati da spiriti fluttuanti e famelici, torturati da idee invisibili, soffocati da aure insensibili. Ogni evento che emerga dalla mediocre angoscia del quotidiano ci invita al risveglio, con la brutalità e l’ironia di un maestro selvaggio.



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