La stessa concezione diffonde i suoi raggi su
vari fenomeni contemporanei.
I ‘femminicidi’ (definizione ideologica che
maschera la reale crescita di omicidi di donne da parte dei loro compagni in
seguito al fallimento della relazione) testimoniano la difficoltà della psiche
maschile (da non identificare letteralisticamente con la psiche dei maschi) a reggere
l’incertezza dei rapporti d’amore e coniugali, a loro volta confusi in un
groviglio difficile da districare. La ‘psiche maschile’ investe molto sulla
sicurezza del rapporto, posto al riparo di un logos, di una promessa: è
un atteggiamento proprietario che soffoca la libertà dell’amore, ma è anche l’ombra
invigliacchita – privata cioè della sua immaginazione militante – dell’antica
idea di voto. O è un contratto, in cui si giura, o è cristianamente un voto, in
cui ci si abbandona a Dio: in entrambi i casi il tradimento è percepito come
una diserzione, una lacerazione dell’unità. Oggi si sente il vincolo nuziale o
semplicemente di coppia (già questa è una confusione significativa) come un ‘contratto
libero’: ma la libertà dell’amore è un ideale assai elevato, che non può essere
letteralizzato nei rapporti quotidiani, dove diventa semmai il disorientamento
di legami privi di struttura.
Qualcosa di analogo è accaduto nell’economia,
nel lavoro: lo stesso subdolo invito all’“avventura”. La vita è rischio, amici
miei! Sì, ma la vita associata è appunto un esperimento per contenere quell’angoscia
radicale, pungolo di ogni cerca romantica ma anche veleno di ogni miseria. Dire
oggi che ‘il lavoro non è un diritto’ è un altro trucco, un po’ meno abile
perché ancor meno digeribile (non sferza, flagella): il lavoro non è forse un
diritto, ma la sussistenza lo è, e poiché nelle società avanzate contemporanee
non c’è che il lavoro per ottenere la sussistenza (l’alternativa è una miseria
men che servile, o una rivoluzione interiore da esseni, da stoici), il lavoro
dev’essere considerato un diritto.
A scuola si consegnano ai ragazzi fossili
impolverati e chiacchiere post-moderne, ovvero vecchiume innocuo e nociva
ideologia senza bussola: quando sono ridotti alla perfetta viltà, al
vittimismo, all’impotenza rancorosa, si dice loro con un sorriso orribilmente
sussiegoso: “Beh, cosa credevate? La vita è rischio. Nel mondo del lavoro
dovete vedervela con i cinesi e gli indiani, che faticano quindici ore al
giorno e percepiscono un decimo dello stipendio dei vostri padri viziati.
Datevi da fare, adattatevi o inventatevi qualcosa etc.”.
I legami d’amore fanno parte della comunità,
anzi la costruiscono. Solo in un’epoca come la nostra si può credere che siano
una zona franca, neutrale: retaggio di un cattivo romanticismo e di un
asservimento delle coscienze sempre più capillare – la solita alleanza moderna
tra sentimentalismo e oppressione. Si cresce con l’idea che l’amore sia il
cuore pulsante dell’esistenza, e la si trova quasi sempre congiunta alla
centralità del matrimonio e della famiglia: poi, si sa, la vita è rischio, e un
matrimonio può crollare per motivi meno gravi che in passato, e virtualmente ad
ogni istante; non solo, si è così imbevuti di quella bizzarra filosofia del
piacere e dell’eternità – un piacere fasullo e un’eternità fasulla – in cui si
mescola l’incantesimo dell’era consumistica con l’idea, intimamente connessa,
del sentimentalismo come lubrificante della macchina, che questa intossicante
contraddizione non regge alle reali antinomie del reale sentimento,
quella funzione razionale di cui Jung conosceva lo spessore culturale.
Come sempre, i crimini di un’epoca sono il
sogno collettivo di un’epoca: lo dice l’Ulrich di Musil a proposito dell’assassino
di prostitute Moosbrugger. Non saper riconoscere questo sogno è un male antico
come l’uomo: oggi, senza più alcuna cultura cresciuta dalla terra dell’uomo
(ogni ‘cultura’ è sostituita dal
rifornimento di merci e di servizi), l’impossibilità di trovare rituali comuni,
immagini del mondo comuni, sembra portare obbligatoriamente alla richiesta di
una maggiore erogazione di sicurezza da parte delle agenzie preposte. L’assenza
di sicurezza interiore costringe a chiedere un airbag sempre più sicuro, una
rete di protezione sempre più fitta. Si dimentica persino l’ovvio, che ogni
ulteriore legge e provvedimento e tecnica sociale e giuridica non può non
recare con sé un’ulteriore contrazione degli spazi di libertà. La coppia, la
diade, ha bisogno di aria, dunque, per curarne i veleni, si simula un’emergenza
e si affretta la messa a punto di ‘gabbie’ che tolgono la poca aria rimasta –
come l’impossibilità di ritirare una denuncia in caso di violenze. Poiché non
esiste più una famiglia per proteggere da abusi come la persecuzione e le
minacce, si danno più poteri all’antico avversario e giudice della famiglia, lo
Stato (che in molti casi, beninteso, ha il diritto di interferire e giudicare,
ma dopo aver compiuto tutti i riti sacri e le ragionevoli inquisizioni sulla
soglia della casa).
Non diversamente: cresciamo con un’idea sempre
più scolorita di appartenenza nazionale, ma sappiamo benissimo di non avere, di
non essere più le antiche patrie e le più recenti nazioni. Lo
sradicamento rende fragili e violenti, come uomini abbandonati dalle donne (o
che tali si percepiscono). Anche il cosmopolitismo è un grande ideale
filosofico che, letteralizzato, si fa distruttore di forme e di limiti. Se non
devo combattere per le mie patrie (non ne abbiamo, non ne avevamo mai una
sola), perché devo combattere per il focolare? Se l’ideale proposto a tutti è
quello del ricco pirata che ha quattro passaporti, case in tutti i paesi del
mondo e soldi in tutte le casse, a quale ideale finirà per conformarsi la vita
affettiva? Qui resistono presso il popolo, gli ex-poveri, oggi avviati a una
nuova miseria da candala, antichi pregiudizi favorevoli alla
convivialità, al calore domestico, alla costruzione di una famiglia come opera
di una vita: ma senza la consapevolezza militante che si tratta di ideali
minacciati, anzi, con il dubbio persistente (instillato dall’atmosfera
collettiva) che in fondo si possa fare, volendolo, tutto o un po’ di tutto (lo
slogan del supermercato), non si può né resistere alla dissoluzione né nuotarvi
dentro. Si viene comicamente smembrati, come accade sempre a chi non è o
insediato nell’élite potente di un’epoca o nutrito dallo spirito sempiterno
delle consuetudini.
Occorre distinguere tra la sicurezza di una
casa, che uno si costruisce da sé, e la sicurezza del rifornimento costante di
merci e servizi, che soffoca ogni autentico spirito civico e ogni freschezza
morale superstite. Anche se esistono i benefici iniziatici dei rischi e della
miseria, una comunità deve lasciare che ciascuno abbia la sua ousia, la
proprietà che lo pone al riparo dalle fluttuazioni avverse e gli dà agili
fondamenta per l’opera di una vita. Il nesso tra proprietà e matrimonio non dev’essere
visto solo alla luce della – giusta – critica anticapitalista, socialista e
romantica. Esiste certo anche un fermento dionisiaco che punta al di là del
matrimonio e della polis recintata, ma negli ultimi decenni si è
proceduto piuttosto a normalizzare e normare le spinte dissolutrici-rivoluzionarie
e a rendere dissolvente la normalità: una condizione che non dovrebbe essere
durevole, anche se non ci si può giurare.
Secondo uno studioso, Penso de la Vega vedeva
nel nascente capitalismo finanziario (primo crack della borsa nell’Olanda del
XVII secolo, piena di profughi ebrei) qualcosa della dialettica sabbatiana: il
messia scende tra le qelippot per redimerle, lo speculatore si inabissa
nell’irrealtà tormentosa del gioco finanziario per trarre ricchezza dal nulla.
Vi è un’alchimia tenebrosa in questa intuizione, che si nutre di echi gnostici
ed ermetici. La maledizione religiosa dell’usura non è mai stata veramente
efficace: la dissoluzione dell’Ordine viene sentita come l’opportunità di
scatenare gli egoismi individuali alla ricerca del bene comune, albeggia l’idea
liberale-liberista. Già Davanzati parla biblicamente di ‘apertura degli occhi’
a proposito della rivoluzione dei cambi: si svela l’illusionismo del denaro,
aspetto di quell’illusionismo occidentale-rinascimentale individuato da Florenskij.
Hoelderlin dice che la dissoluzione del reale fa emergere il possibile, e il
possibile viene colto come sogno, fermentazione di immagini escluse dal gioco
del quotidiano, dal proscenio illuminato dei principi condivisi. L’homo oeconomicus
sorge anzitutto come individuo isolato dalla comunità, liberato dai vincoli
tradizionali, dalle consuetudini sentite come opache, passivamente accettate.
La religione non è più il contenitore (in tutti i sensi) dell’angoscia, che ora
diviene disponibile per inedite creazioni politiche, sociali, culturali:
secondo Benjamin il capitalismo è una religione inconscia, che invece di
promettere espiazione moltiplica l’angoscia della colpa-indebitamento
attraverso una struttura di totale opacità, un ritualismo ossessivo che si nega
per principio alla visione in trasparenza di una consapevolezza distinta da
esso. In questo senso, l’aggettivo totalitario gli spetta kat’exochèn
(intuizione di Pasolini sul rapporto tra fascismo-fascismi e neocapitalismo
consumistico). Le varie crisi sono state apocalissi abortite: non è ancora
giunto il suo autunno, nel senso dell’autunno del Medioevo indicato da
Huizinga. Come molte religioni, potrebbe sopravvivere svuotato, inefficace: ma
il suo statuto di religione solo-cultuale glielo consentirà? Non avendo
teologia, come potrebbe resistere all’abbandono dei suoi riti, alla rovina dei
suoi templi ed altari? A meno che la sua teologia non sia tutta l’ideologia del
moderno, come sembra piuttosto probabile, nonostante non vi sia perfetta
coincidenza – e d’altronde non c’è mai. In questa crisi non si sente appunto
aria di krisis, di revolutio, perché ciò presuppone l’ermergere,
insieme alla dissoluzione del vecchio e ad essa confuso, di una nuova forma
mentis, una nuova griglia epistemologica congiunta ad un sentire
finalizzato e non smarrito.
Illich: oggi tendiamo a confondere genere e
sesso. Il genere è una creazione culturale e postula una complementarità, il
sesso è la differenza naturale di un’unica specie, concepita astrattamente come
‘umanità’, e tendente a identificarsi con l’homo oeconomicus. La
discriminazione è possibile solo con la divisione sessuale, in cui c’è
competizione e dualità proprio a causa dell’assenza di qualità dell’umano. Il
male proprio del genere è la confusione tra simboli e individui: inoltre la
lettura della diade è viziata dalla preponderanza ‘essoterica’ del maschile, l’elemento
‘apollineo’, ‘paterno’. Il potere, il dare la morte, la differenziazione
sociale sono dalla parte del maschile: il femminile viene ridotto a
ricettacolo, parallelamente alla perdita di sostanza mistica della venerazione
per la Terra, gli vengono imposti la continuità della tradizione (la
generazione della prole e la sua prima educazione, la ‘lingua materna’ della
cultura, l’oralità), la custodia sacerdotale della vita e della integrità (Chesterton),
sempre a rischio di ‘santificazione’ e dunque di separazione dalla zoè
divina vera e propria. Leggendo Hillman e Zolla si può presagire che, alla fine
dell’era del sesso, dopo il tempo dell’Operaio e quello del Candala, stia
emergendo come possibilità non l’umano senza qualità
brutalmente/sentimentalmente sessuato, ma l’androginia dionisiaca, il
rimescolamento di sessi e generi. Tema del genere e del trans-genere: si tende
a superare proprio il genere come costruzione culturale, ma la direzione del
movimento sembra oscillare tra il carnevale del Gay Pride e le rivendicazioni
di un diritto alla normalità e alla norma. Più liminari, borderline, le
riflessioni sull’intersessualità: mostra, proprio perché mostruosa, che la
divisione sessuale non è meno artificiale o comunque dubbia e incerta della
distinzione tra i generi. Nella favoletta di Fedro Prometeo foggia i sessi
separatamente dai corpi degli uomini (sexus, da secare): poi
viene invitato da Dioniso, si ubriaca e alcuni li attacca in modo erroneo,
creando così gli invertiti, tribades e molles mares, lesbiche ed
effeminati. Dietro il dileggio del maschio romano c’è l’antica idea di un
Dioniso androgino, molle, signore delle donne, dissolutore dell’ordine politico
chiuso. Questa ebbrezza del demiurgo si traduce nelle nostre vertigini, nel
fascino e nella ripugnanza che suscitano in noi gli stati intersessuali ancor
più che la donna-uomo (con il pene ovvero dotata di un clitoride ipertrofico) e
l’uomo-donna (con un culo-vagina), scherzacci perpetui da caserma. D’altronde
si tratta di scherzacci che il nostro tempo ha trasformato in realtà politiche
e sociali: l’uomo-donna è l’isterico delle masse fasciste e comuniste e il
passivo cinedo del potere pubblicitario, in entrambi i casi un vile senza
spirito civico, un lussurioso inerte, così come la donna-uomo è quella gettata
nella competizione economica in uno stato di permanente inferiorità, alla
ricerca del solito potere fragile – ma, come osserva Chesterton, appunto senza
più la consapevolezza che non c’è potere senza la facoltà di dare la morte, di
partecipare alla sedizione collettiva. L’unione sessuale e oltre i generi dell’uno
e dell’altro mostriciattolo ha per risultato la fittizia e realmente impotente
democrazia del nostro evo. L’esplosione dei generi non ha ancora traghettato l’uomo
al di là del sesso e dunque del taglio originario: la rivoluzione dell’androginia
andrebbe nella direzione di una maggiore completezza e fluidità, di cui per ora
si rilevano solo cenni grottescamente parodistici.
Certo è vero, come dicono i critici queer,
che il genere è una costruzione culturale: tuttavia è indubbiamente legata, in
modo confuso, alla constatazione della differenza sessuale. Si può dire che il
genere è costruito sul sesso, ma anche, secondo il filosofico linguaggio
antico, che la differenza sessuale è la manifestazione, nella materia, della diade
simbolica, eternamente intrecciata sul caduceo. Gli stati intersessuali o le
inclinazioni erotico-sessuali contrarie al sesso apparente della nascita sono,
come ogni eccezione all’interno di un ordine fluttuante fra simbolo e carne,
gli ‘anelli deboli’ che fanno accedere a una superiore unità, come le deformità
e le malattie iniziatiche, come la malinconica, pessima tra le complessioni
naturali e dunque possibile via al soprannaturale, come l’essere –
culturalmente e individualmente – senza qualità o proprietà di Ulrich è il
punto di partenza della sua trasfigurazione in mistico, ‘senza proprietà’ nel
senso dei renani.
‘Femminicidio’. Il maschile di oggi ha il pene
fragile dell’impotenza, in ogni senso possibile. Il legame d’amore più incerto
lo fa sentire castrato, e dalla ferita sgorga un sangue psichico che si traduce
nel versamento del sangue femminile. Nella coppia divina la Dea divora il pene
del dio-fratello e lo sostituisce con un pene di fango o di cera, molle, un linga-sarira,
un corpo di sogno. Un tempo l’uomo accettava semiconsciamente questa operazione
umiliante diventando il fuco della casa, il pesce fuor d’acqua, in cerca di
cameratismo e avventure erotiche all’esterno. Oggi quel sangue non trova nessun
contenitore, e nella psiche maschile, violenta per debolezza, il dolore non
accolto diventa aggressività (in quella femminile tende a diventare sadismo o
masochismo bianco, il veleno da fattucchiera che scorre nelle tragicommedie
della narrazione popolare sul matrimonio).
Non ci si può limitare a reprimere i bruti –
magari cercando, quando capita, di educarli a un astratto ‘rispetto’ – e ad
insegnare alle donne le pur necessarie arti della difesa, ovvero un po’ di
egoismo sano e saggio. Questa è una misura davvero troppo condizionata dalla sensazione,
provocata a bella posta, dell’”emergenza sociale”. Se stesse davvero a cuore la
verità, ovvero che si tratta semmai della nuova versione di un vecchio dramma
culturale, si proverebbe a ripensare la coppia invece di lasciarla alle
correnti di un mutamento rapinoso. Ma il sentimentalismo crudo è un’arma troppo
preziosa per le forze sottili che hanno interesse a mantenere ed eventualmente
peggiorare lo stato di impotenza e dunque di servitù dell’anima occidentale
contemporanea. Il vecchio recinto del matrimonio era ormai diventato appunto
solo un recinto, ma un recinto non è poco, specialmente quando il desiderio di
uscirne all’impazzata viene deformato dalle interpretazioni mendaci e dagli
interessi profondi, il più delle volte inconsci ai singoli, di un sacerdozio
commerciale senza volto. (Anche qui Pasolini era un buon conservatore.
Pochissimi sono stati, sempre, i rivoluzionari lucidi, o sarebbe piuttosto il
caso di dire gli sperimentatori dell’immaginazione).
Capire non ideologicamente che i criminali
sono sempre le teste su cui si addensa il male dell’epoca è l’impresa che
riesce solo ai pensatori autentici, in cui l’indifferenza anarchica si
congiunge a una compassione non sentimentale. Chi giudica è sempre già
giudicato, per il fatto stesso di giudicare. Come rendere palpabile questa
intuizione religiosa in un tribunale desacralizzato (ma anche sacro, il più
delle volte), in una comunità che non sente i filamenti vivi della conjuratio?
Ma è difficile e quasi impossibile in ogni tempo. In un certo senso la
punizione è un privilegio: si vuol far comprendere al criminale che è stato vocato,
che è un essere libero ovvero liberabile. Ma lo si getta in un purgatorio
troppo simile all’inferno, non tanto per le condizioni esteriori quanto per il
gran movimento ubriacante della massa di linciatori che si stringe intorno a
lui. Gli si offre un percorso iniziatico ricoperto da mille veli pesanti, da
maschere fuorvianti. D’altronde lui stesso ha imposto alla comunità lo stesso
micidiale koan: come vendicarsi di lui, e poi che senso ha vendicarsi? Viviamo
sempre nel gran teatro dei simboli, i nostri corpi vengono afferrati da spiriti
fluttuanti e famelici, torturati da idee invisibili, soffocati da aure
insensibili. Ogni evento che emerga dalla mediocre angoscia del quotidiano ci
invita al risveglio, con la brutalità e l’ironia di un maestro selvaggio.
Nessun commento:
Posta un commento