Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



giovedì 26 settembre 2013

Nec satiare queunt spectando



Quando mi innamorai di Lucrezia, l’unica figlia di Quinto Lucrezio Varo, avevo diciannove anni. Ora, come sapete, ne ho ottantaquattro. Molti mi hanno detto o sussurrato, nella mia lunga vita, velando goffamente un sorriso: “Che prodigiosa costanza nell’amore, la tua!”. Beh, perdonatemi se la vecchiaia mi rende irritabile (da giovane ero mite, cedevole, distratto), ma che vadano tutti in croce, quei bastardi pettegoli, se non ci sono già andati. Lo so, so che il mio amore è contrario ad ogni legge divina ed umana: del resto, io mi sono allontanato dagli uomini, e gli dei si sono allontanati da me, quindi l’esito non poteva che essere lo scherno silenzioso, l’altezza indecorosa della solitudine. Non ho molto da dire, su quell’amore `prodigioso`, se non che per me è il segno dell’unghia del destino sulla mollezza delle carni: una lama di luce, un abisso di povertà. Io, Mamerco Collatino, ex legato imperiale, ex amico intimo di due Principi, ex mercante dalle mani vilmente pulite, ex tutto, ricevo di quando in quando la visita della sua ombra, di Lucrezia intendo, quasi sempre in sogno, com’è ovvio: e mi dice cose strane e belle, che vorrei ricordare, ma non ricordo. Quando entrerò anch’io tra le ombre, forse non la riconoscerò, o forse la vedrò per la prima volta, se ancora avrò occhi dopo le lacrime e la presbiopia naturale, essenziale, profetica dei miei ultimi anni: quando comporranno le mie spoglie, la luce e la povertà mi sopravviveranno, e andranno a fecondare altri giardini furtivi, andranno a tracciare un pomerio di assenza, a fondare un impero di solitudine in altri diciannovenni miti e distratti.

Dopo la mia delirante passione per Lucy Dawson, ragazzo, decisi che non sarei mai più ‘caduto nell’amore’, come diciamo nella nostra lingua fine e sensibile. “L’amore non è una trappola, Bill (mi chiamo William Archer-Boyd), è un pellegrinaggio tra i fiori e le rovine. La trappola siamo noi”. Queste sono le parole che mi rivolse, tra un whisky e l’altro, un caro vecchio amico che non è più tra i vivi, Lawrence Wadsworth, di Brighton. Me le ero dimenticate: mi sono tornate alla mente adesso, mentre cercavo di parlarle di quelle lontane angosce seguendo le spire maliziose del mio sigaro. Credo avesse ragione, ma d’altro canto, se la trappola sono io, cosa cambia? Ovviamente non riuscii a tenermi troppo distante da tagliole e crepacci, ma cercai di gettare ogni fiore nel fuoco notturno della mia gioia, e di dormire sotto ogni rovina con la concentrazione del pellegrino e la molle noncuranza del gitante. Avevo una trentina d’anni quando mi diedero quel posto nella capitale: mi tuffai nel mondo nudo come un selvaggio, ma ero refrattario ad ogni colpo. Mi sposai, misi su famiglia, feci un po’ di carriera. Che tristezza, eh? Macché, ero un sole di esultanza, un poeta appeso a un filo d’erba su un abisso di colori e di perfezioni. L’amore, mi dicevo, immiserisce: come la profezia e la maternità, avvince ad una zolla, rende qualsiasi veggente una talpa. Solo una volta il vecchio Lawrence mi chiese come facessi a sposare il mio cinismo con uno stile interore così raggiante, spezzato, ferito di gratitudine e canoro come una certezza spogliata di appoggi. Gli risposi, con un sorriso che non ebbi e non avrò più, che non ero cinico, ma – giocando con le radici greche, come facevamo da ragazzi, a scuola – un vero e proprio cane vivo, da cui non uscirà, come dal leone morto, miele di consumata attenzione, di lenta e accalorata dedizione, ma solo il puzzo della morte terrestre e l’aria soave della libertà spregiata, quella che non si vergogna di temere il bastone, quella che corre dietro alle ombre e ai riflessi con rabbia severa e giocosa, quella che attende qualche briciola e qualche osso con una sorta di divina derelizione nel sangue. Non so se mi capisce, caro ragazzo. Veramente, non mi capisco neanch’io: forse nemmeno allora. Va bene, il sigaro è finito. La prego di prepararmi il letto: non sono un grande spettacolo, quando gli acciacchi dell’età mi chiamano a udienza da Sua Maestà il corpo.

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