Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 17 ottobre 2010

IL CASTELLO IN FIAMME E L’UNGUENTO DELLA PAROLA



Il testo che segue è una testimonianza sulla grande scrittrice Elena Bono inclusa nell’omonima raccolta: Il castello in fiamme e l’unguento della parola. Elena Bono e la sua opera (progetto di Stefania Venturino, Edizioni Le Mani, Recco, 2007).


Una tradizione ebraica[1] narra che Abramo, lungo il suo cammino di cercatore, vide di lontano un castello splendente. Pieno di meraviglia, si chiese: “Chi sarà mai il signore di un simile castello?”. Si affacciò allora, ad un alta finestra, un re, che disse con serena forza: “Sono Io il Signore del castello”. Il senso del raccontino è chiaro: il pellegrino calca il sentiero dell’uscita da sé, dell’esodo, incontra il mondo, è travolto dall’umile bellezza, e s’interroga nel silenzio del cuore: Ma questa cosa qui, avrà un signore? La risposta erompe luminosa e sonora: il Creatore si sporge, annuncia: Io sono; Sì, sono io.
La storia può essere letta diversamente. L’espressione che abbiamo reso con “castello splendente”, può significare altresì: “castello in fiamme”.[2] Abramo scorge un castello in fiamme lungo la via. Pieno di sgomento, si chiede: “Ma un simile castello, avrà un signore, qualcuno che ne risponda, qualcuno che possa proteggerlo e salvarlo?”. Un re si affaccia fra le lingue di fuoco, dichiara con inconcepibile maestà: “Sono Io il signore del castello che brucia”. Il castello sta bruciando, ma ha un Signore. Il mondo è in pericolo: Chi l’ha voluto e plasmato lo difende, con inconcussa risolutezza feudale, con una fermezza che sembra arrestare, per un attimo eterno, le terribili fiamme. Ma che ne sarà del padrone del castello, del Signore del mondo? La sua presenza deve consolare Abramo, o non, piuttosto, spezzarlo? Col cuore spezzato, il nomade di Charran aggiogherà moltitudini, genererà una stirpe di fiammeggiante, luminosa miseria, sarà il re dei mendicanti di Dio.
Nell’oscillare di questa anfibolia – castello splendente, castello in fiamme – si dischiude, come un unico respiro, tutto il tempo fra l’Alfa e l’Omega, fra il Bereshìt e il Maranathà.[3]
Una ragazza, una ventenne, che immaginiamo leggera e tempestosa come certe mirabili creature del romanzo russo, di radici e di terra italiana, ma tutta percorsa dalle linfe della patria più vasta, l’Europa, camminava attenta e decisa sul sentiero della sua giovinezza, giusto all’inizio degli anni Quaranta del secolo appena passato; quando scorse un vecchio, nobilissimo castello, aggredito da un incendio che già ne sfigurava ogni splendore, e ne minacciava, con tutta evidenza, anche la non più robusta struttura. Qualcuno avrebbe potuto trovare sublime l’orrendo spettacolo: del resto, molto, nell’aspetto dell’edificio, lasciava credere che fosse abbandonato da secoli, e allora di cosa doveva rispondere lo spettatore, se non del proprio intimissimo disagio? Ma la ragazza, i cui occhi limpidi, prensili quasi, non sapevano trascurare alcun dettaglio di quello sfacelo, fu interpellata, raggiunta, ferita: e la ferita appena aperta nel cuore sembrava cercar di vedere, come un occhio velato, e ancor più esatto e doloroso degli altri due. L’occhio del cuore interrogò, ripetendo il padre Abramo: “Ci sarà un signore di questo castello? E vi abita ancora? E chi è?”. Si affacciò qualcosa, qualcuno: tutto sembrava, sulle prime, tranne che un re. Era uno, illeso dal fuoco, forse, ma più ferito del cuore della giovinetta, e di qualunque altro cuore. Pareva lo avessero ridotto così per qualche scherzo funesto, di quelli che sul momento si accettano, ma perché già si sente la muta fatica che costerà serbarne il ricordo. Nulla era maestà in lui, fuorché un certo lampo, indicibile, nello sguardo: dunque, in un certo senso, era tutto maestà, ma in che modo! “Io sono il signore del castello”. Elena, la ragazza, gli credette, e le sembrò di non poter fare altrimenti.
Da quel giorno Elena capì che, se il castello era il mondo, e più in particolare quella grande immagine del mondo che è l’Europa, il Signore piagato e imperioso non era solo fra le sue mura e le sue fiamme: tutti vi siamo con lui; come lui stesso aveva annunciato, e promesso, duemila anni fa, prima di sottrarsi agli occhi del corpo e al loro già forte dolore. La giovinetta dal passo tempestoso e alato iniziava così a cercare, con cuore spezzato e veggente, i lineamenti di quel Volto in tutti i volti, agl’incroci delle strade degli uomini, castellani che per lo più non avevano visto e continuavano a non vedere, figli di re il cui segreto dolore attendeva la benedizione di parole nuove, inflessibili, giuste e misericordiose.
La ragazza Elena avrebbe conservato la freschezza del sorriso e dell’incedere, perché nel digiuno e nell’attesa – è scritto – bisogna ungersi la testa e lavarsi la faccia,[4] come per una festa tra fratelli.

Non ricordo con precisione come arrivai ad incontrare, pellegrino infinitamente meno avventuroso, questa parola di benedizione. Forse è così di molti eventi destinati, segnati da un’unghia misteriosa e più intima di ciò che è familiare: nell’infittirsi della trama un dettaglio fa solo increspare le acque del cuore, ma sul fondo è stato deposto qualcosa, che ci ha già modificati, con un trasalimento segreto che solo il futuro sdipanarsi dei giorni vedrà albeggiare nella coscienza.
Era stata appena pubblicata l’antologia Novecento letterario italiano ed europeo (Città Nuova, 2002),[5] due volumi di cospicua mole e tuttavia di aspetto stranamente lieve, quasi avventato, in cui il critico e poeta Giovanni Casoli rileggeva e rinarrava la cultura del “secolo breve”, molto espungendo e molto interpolando rispetto alla vulgata accademica, fino a portarne alla luce il meraviglioso e drammatico disegno, la cifra di un aggrovigliato tappeto. Ero stato felice, fino allo spavento, di scrivere alcune pagine per quel lavoro: Casoli era stato mio insegnante al liceo – ma il verbo al passato serve solo per fare un po’di cronaca minima; egli è insegnante, in un incondizionato presente. Sfogliando i volumoni freschi di stampa, fra i molti giganti che non avevo mai incontrato (per non aver mai alzato lo sguardo), trovai il ritratto e il florilegio di Elena Bono. Morte di Adamo! Bastava per provare ad entrare. Una musica di pensiero, scura e vigorosa come certi paesaggi, molto ricchi, ai primi istanti dell’aurora, mi trascinò e guidò insieme, sebbene non vedessi dove. Casoli mi prestò la raccolta intera, che aveva il titolo di quell’immenso racconto; gli chiesi inoltre, fra le altre opere di lei che aveva in biblioteca, un breve atto unico su Giovanna d’Arco, La grande e la piccola morte. Difficile da spiegare: la Pulzella mi aveva sempre turbato, mai davvero conquistato; il film di Dreyer e il mistero di Péguy mi avevano sconvolto, non illuminato. Dopo mezz’ora di lettura (la pièce non esige, apparentemente, di più), mi resi conto d’aver sfiorato una delle più vive, lancinanti ed esatte esperienze del Male che avesse attraversato un cuore umano, in quel Novecento che, per averne troppo sorbito, così spesso se ne era ritratto, proteggendosi con parole smisurate. Qui invece un paio di dialoghi teatrali, in un italiano allo zenit della sua fecondità, ben coltivato e nutrito di studi e di silenzi, porgono l’insostenibile con lo stesso straziante equilibrio – così sentivo – della tragedia attica: ma nell’asse incrollabile di una spirale di luce più inquieta e più maestosa, come la proiezione infinita di uno scandalo che non può essere accettato, eppure è stato accettato nella Gloria. Percepivo tutto questo nel mio corpo: poi si mosse, beneficato, il pensiero. Non feci altro che buttare giù, per gratitudine, alcune annotazioni, che spedii a Casoli. La mezza paginetta fu girata poi ad Elena Bono, che mi rispose. Da allora, fui inondato, a mezzo posta, di tutti i suoi libri: un ciclone di grazia da cui ancora non mi sono riavuto.

Una grande novità, specialmente per l’Italia, è la peculiarità dello stile di Elena Bono, l’efficacia della sua parola. Mi capita spesso di fare il nome di Dioniso: accostamento che può suonare decadente, laddove la musica e le idee di Elena Bono sottopongono i pur ricorrenti temi da finis Europae ad una risoluta purgazione, da cui escono irreversibilmente mutati, piegati ad una mèta, piagati di verità umana. Parlo di Dioniso perché la parola della Bono coinvolge e provoca innanzitutto i sensi: la sua ricchezza dà gioia, senza dubbio, ma la gioia più difficile è quella che albeggia anzitutto dalla vocazione probatica, iniziatica della sua scrittura, teatrale, narrativa e lirica. I sensi si accendono, e accendono il pensiero, che si affaccia al mondo e alla storia più umile e quindi più audace: caldo e illuminato, cordiale. Il sorriso di una saggezza ferita, quasi il ritorno inatteso, in un mirabile italiano pluridialettale (scherzosamente e seriamente designato da qualcuno come “bonese”), di certi maestosi mužiki e stranniki tolstojani e dostoevskiani, spunta immancabile eppur miracoloso in tutte le sue opere: un resto d’Isaia che porta nel cuore lo stigma del Servo sofferente, e sul viso un barbaglio della sua ancor più segreta festa. I sensi si aprono uno dopo l’altro, come al tatto penetrante di un olio liturgico, e prendono un coraggio sottile, il coraggio di sentire il creato così com’è. La memoria torna al Sentire e meditar, il sobrio e indimenticato lascito dell’Imbonati al giovane Manzoni, raccolto da una manzoniana italiana di robusto respiro europeo (i migliori russi, tedeschi e francesi rivivono in lei); ma anche alla “grazia violenta” eschilea, all’apollineo riserbo con cui Sofocle spalancava abissi. Una parola integra, che dice tutto l’uomo – cioè l’uomo nella sua povertà sostanziata da Dio nel fratello; e che procede da un’integrità di vita e di relazioni che merita qualche, spero giusto e pudico, cenno.
Ciò che trovo nella pagina di Elena Bono è parte di ciò che mi viene donato dalla presenza stessa di Elena Bono: dalla sua conversazione, dalla sua ospitalità, dalla sua capacità, davvero irresistibile, di intrecciare amicizia. È raro, nel corso di un’intera esistenza, sentirsi pienamente liberi al cospetto di qualcuno, specialmente se la sua grandezza ci tenta a ripiegarci sui nostri limiti, a proteggerci per carpire: ebbene, parlare con questa donna così intimamente segnata dalla Parola è sprigionamento del respiro, è petto dilatato, il disegnarsi di uno spazio in cui è dato abitare. Si ha la sperimentale certezza che questa donna, avendo accettato e amato l’uomo totale, l’uomo nella sua tragica e promettente verità, ora accoglie te, con carità insieme delicata e inesorabile.
A questo punto non stupisce, ma accora, che un’opera così affabile e necessaria sia stata occultata, in questa lunga finis Italiae. La trilogia Uomo e Superuomo, ferma e quasi inchiodata, nonostante la sua vastità, ai pochi anni del Novecento in cui si levò all’orizzonte uno dei volti più orribilmente familiari del Male, il nazifascismo, impone al lettore un fardello profetico del quale potrebbe non sgravarsi mai più. Nell’oracolo del Silenzio di Isaia, la sentinella, interrogata sul punto della notte, risponde: “È venuto il mattino, ed anche la notte”.[6] Dopo Hiroshima, l’Occidente e, in esso, il mondo intero, si è avvolto in un mantello come Maometto dopo la visione: ma tremava così forte, che di lì a poco il sussulto gli sembrò un nuovo di tipo di quiete, non propriamente vivibile eppure, in certo modo, durabile. Non capì, come tutti i sopravvissuti impuri, che la magia del disastro avvince col suo stesso scandalo, facendo torcere lo sguardo. Il fardello che la trilogia impone è quello della semplice verità del Nazismo: apocalissi della storia europea e di tutti i suoi archetipi, il suo atroce tiaso di fantasmi portava, alto sulle teste, un nero sole di contagio insolito, un male del male, una ben distillata quintessenza che mirava, oltre ogni stentorea deplorazione, a farsi silenziosamente amare. Elena Bono ci racconta il Ventennio, la Resistenza, le SS Totenkopf, riconsegnandoli a una memoria più vera, alla crocifissa trama della storia profetica: questo siamo noi; oggi. “Se volete domandare, domandate: ritornate, venite”.[7] È proprio ciò di cui ha fame la nostra anima: e proprio per questo il simposio delle lettere, nell’Italia che si vuole repubblicana e antifascista, non ha scritto il nome di Elena Bono sull’invito.
Ma a un solido nutrimento è ancora invitato chi voglia digiunare dal lievito stanco del postmoderno, dagli amari o compiaciuti giochi sull’orlo dell’abisso: troverà un pane di luce, da spartire in fraterno dolore e in sostanziosa gratitudine. Chiunque intraveda, mettendosi sulla traccia di deserto del padre Abramo, il castello splendente che è anche il castello in fiamme, e provi un muto sgomento sulla soglia del domandare, sappia che una giovinetta ha visto, ha interrogato, e ha proseguito la strada con una nuda certezza in fondo all’occhio del cuore: il castello sta bruciando, ma ha un Signore.


Note:

[1] La storia è un midrash riportato nel Bereshìth Rabbah (XXXIX), grande raccolta di midrashìm al libro della Genesi.
[2] Biràh dolèketh, che in ebraico ha appunto entrambi i significati.
[3] Bereshìth, “In principio”, è l’inizio del libro della Genesi e il suo titolo ebraico: Maràna-thà (aramaico: “Signore nostro, vieni!”) è l’invocazione che, tradotta in greco, chiude l’Apocalisse di Giovanni (22,20).
[4] Cfr Mt 6,17.
[5] Le pagine su E.B. sono nel secondo vol., pagg. 67-87.
[6] Is 21,12.
[7] Ibid.

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