Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 20 settembre 2011

Per chi combatte (2004)


È urgente lottare per lo spazio interiore, immaginale, piuttosto che per quello esterno, che è una proiezione celebrativa e comunitaria del primo. Lottare pro aris et focis: i centri immaginali della comunità. Così ogni guerra è un’ordalia, un processo alle intenzioni, ascesi e jihād. Al-jihād al-saghīr (il piccolo jihād, lo sforzo ascetico e militare contro i nemici della fede incarnati in esseri umani concreti) è ‘piccolo’ nella misura in cui è abbracciato e preceduto dall’altro, il ‘più grande’. Combattere per lo spazio esterno è connesso alla caduta dell’anima nelle sue proiezioni: forse non è un caso che Caino fosse agricoltore (e soprattutto che il midrash insista sulla spartizione territoriale come origine del conflitto: il mio è il mio e il tuo è il tuo), che Romolo abbia tracciato il solco, che l’aratro scavi il solco e la spada lo difenda. La guerra riattualizza il sacrificio/eccidio primordiale, padre di tutte le cose, che ha dischiuso lo spazio dall’interiorità vibrante, acustica, del tempo o logos. La sua ananke impersonale, cosmogonica, sacrificale, consente all’interiorità di vivere e far frutto nell’ascesi (l’unica e sola innere Erlebnis): la furia dionisiaca in cui vibra il cuore di pace, l’occhio della tempesta, Apollo-Dioniso congiunti o, in religioni a più forte impronta patetico-profetica, la collera regale o paterna che conserva un cuore di dolcezza, misericordia, carità; o meglio – in religioni e culture più chiaramente nondualiste – la misericordia stessa è l’essenza, il gioiello dell’atto marziale, accoglie lo squilibrio del nemico per redimerlo e pacificarlo, compie una epistrofè spontaneamente, perché il seme aureo dell’ira è karuna. La guerra è anche comica: una burattinata, un gioco di forze preterindividuali – e quindi un’opportunità per lo spirito, per la spiritualità del sacrificio (karma-yoga nella Gita) che media, in modo potenzialmente tragico (posizione centrale della casta guerriera, dell’eroe come patiens che dev’essere redento dallo sguardo apollineo dell’epica o dalla terapia della crisi dionisiaca, fondata sulla possessione o sulla sua alienazione, più prossima al logos, nel teatro), fra il comico e moksha. Come ogni iniziazione, la guerra è una trama diabolica, una strage, che si offre pericolosamente (senza garanzie) come sacrificio. Non va cercata né sfuggita (ananke): chi la cerca è gabbato, come il Mefistofele goethiano, pensa di reggere i fili che lo reggono, è un pupazzo che l’archetipo dementat prius.

L’interpretazione rabbinica del Tanakh come lotta di Giacobbe col corpo letterale della Scrittura, per non esserne sopraffatto e ricevere la benedizione.

“Distruggi la Kaʻba e ricostruiscila nel Nascosto” – “Distruggete questo Tempio…”. La guerra, come il sacrificio e la tragedia (come il Giudizio in genere: vedi il sermone di padre Felice nei Promessi Sposi), ripetendo lo strappo originario che ha generato lo spazio, lo inverte – e lo compie. La terra chiede di esistere intimamente in noi: è l’epistrofè di Plotino (e di Lao-tzu) e l’Irruzione di Meister Eckhart.
Ramakrshna che taglia in due l’immagine della Madre con la lama della discriminazione (viveka). L’immagine appartiene a karuna, al relativo, al sacrificio, bisogna svuotarla, vederla non-separata dal Vuoto (fanā’ dell’immagine-idea monoteistica, affinché sia possibile il baqā’, il non-due, la trasparenza perfetta Shunyata-Karuna).

La guerra giusta: il giusto è tragico, media tra necessario e buono.
La guerra santa: santo è Dio, ma sia nella propria intangibilità, sia nell’anticipo/attesa della pienezza messianica, ultima. Il Santo, sia benedetto (Qadosh barukh hu), è il Nome di Tif’eret, del Dio maschio, del Cielo. Dio combatte, è Uomo di Guerra, nella misura in cui ha fede. Ha assegnato la Terra ai non-eletti, ora va contro se stesso, abroga le disposizioni precedenti, si contraddice come tutto ciò che è vivo, individuale. L’ascesi-jihād del Dio unico e giusto è la sua lotta per diventare concretamente universale, Tutto-in-tutti, per aprirsi al commento talmudico, per superarsi: è la sua richiesta di essere “libero da Dio”, dal monoteismo assurdo o provvisorio dell’Ens Supremum, del Dio come Superuomo. Dio vuole e non vuole (nella fede) l’esilio del popolo a cui si è legato: l’esilio della sua Shekhinah in cui si manifesta particolarmente, temporalmente, storicamente. Bene Massignon: il semitico è sacrificale. Un Dio che si sacrifica (e si contamina), per questo tende a disprezzare, nella coscienza del profeta, la macchina del sacrificio sacerdotale, alienazione misericordiosa e magica (quindi imperfetta) del comune sacrificio di Dio e uomo legati in una berith passionale, viscerale. Un Demiurgo passionale che vuol essere iniziato – sicuramente una sapienza inferiore, etton, rispetto a quella delle metafisiche enopoliteistiche, non-duali; tuttavia fede e ignoranza-follia, in quanto creatrici, sono pegno della sapienza esoterica massima, quella della trasmutazione del cosmo in Nuovo Adamo.
Il Dio profetico è tanto l’essoterico, quanto l’esoterico dell’esoterico, rispetto allo gnosticismo, che è una mediazione razionale e sapienziale. È l’ineliminabile orizzonte letterale della rinarrazione gnostica. È così immediatamente sublime, enorme, assurdo, da capovolgersi nell’umanissimo, nel troppo umano – la legge, il sentimento, la debolezza. “Yah qanna’ è il Suo Nome”: Dio del pathos, YH supremo che si completa nel WH del pathos.

Nessun commento:

Posta un commento