Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 12 settembre 2011

Tao, regalità, cultura (appunti del maggio 2005)


Cielo e terra trattano i diecimila esseri senza ren, senza morale. La morale “orizzontale” non è in se stessa fondata (e a fortiori non è fondata in se stessa). Li trattano come “cani di paglia”, individualità composite e transeunti buone per il rito della vita. Il tratto “disumano” della massima taoista è reale, ma legato alla limitatezza dell’umanità, del ren. Quindi il saggio/santo, immagine del cielo-e-terra come manifestazione del tao in virtù del suo te o efficacia magica, non ha ren, umanità, morale, nei confronti degli uomini di cui è il reggitore reale, nascosto: egli rafforza il suo e loro ventre (l’accoglienza radicale del tao, la fede-pratica che cuoce i contenuti dell’esperienza nel forno alchemico del ventre) e indebolisce le ossa, rinuncia all’occhio (non coltiva l’individualità e la conoscenza che la solidifica). Il wu-wei, non-intervento (Granet), è anche non-cultura, o per meglio dire una rinuncia a costruire la cultura, la psiche. Le autonomie relative (uomo, ragione, esseri in quanto causae secundae, cultura) come nel Mahayana vengono poste proprio in quanto non-diverse dal Vuoto, dal Tao: la loro posizione è quella ambigua dell’immagine, illusione-realtà rivelata, libero gioco del te. Il saggio/santo sostiene il mondo annullandosi: la sua regalità è ampia come il Tao, mentre il potere sciamanico è limitato, ancora vincolato all’“azione”, all’ottenimento.
Il “popolo” è la psiche stessa. Il re-santo, fine punta dell’anima, servo dei servi (impluvio del mondo) e pura maestà, lo regge senza reggerlo: l’atto dev’essere semplice, così l’idiozia spontanea della mente animale può giocare liberamente. Ma il “rifiuto” della cultura (confuciana) rende il taoismo ambiguo: il re può diventare l’autocrate esoterico sasanide, l’imam fatimida, oppure l’implacabile scolta della Legge secondo i Legisti (e i loro strani discepoli maoisti e khmer rossi). La cultura fiorisce solo nel crepuscolo della decadenza, che è un’alba alchemica: l’alba utopica dell’Età dell’Oro, se letteralizzata (cioè se non passata attraverso la ruminazione e la riflessione della cultura), è mito diabolico, assassina l’anima. Però, non-intervenendo, non si intende costruire e costituire nulla: la cultura è libera, ogni epoca è decadenza, transito, kairos del risveglio spirituale. Il taoismo “si vincola” alla marginalità: “condannando” la cultura, il wei, il ren, li preserva svuotandoli (è quasi l’atteggiamento buddhista Mahayana). L’humanitas ha bisogno della barbarie (schiavi, bestiame, follia, anarchia, nomadismo), il tao è il sorriso inafferrabile di Dioniso, la sua misericordia “inumana” al di là della sua epidemia “disumana” (assalto del barbaro, stupro, disordine sociale e psichico). Il taoista insinua che è l’humanitas a creare la barbarie: le serve, le giova; spezzare questa dialettica atroce, in cui consiste lo spirito storico, non è fuga nella “natura” (sarebbe interna alla dialettica stessa), ma il lasciar-essere la dionisiaca regalità del te, la potenza affrancata da ogni dualità, da ogni angosciante e angosciata meschinità. Altrimenti la magia di Dioniso, se infetta una psiche umana, genera superuomini terribilmente farseschi: Alessandro l’insaziato, Marco Antonio l’orgiasta, Nerone l’istrione, forse anche i timuridi micidiali e delicati, e il primo imperatore della Cina, Qin Shi Huang, l’aspirante immortale. I papi imperiali e gli imperatori sasanidi, bizantini, germanici hanno cercato di crocifiggere alchemicamente, col ferro del verbo profetico, il mercurio dionisiaco. L’imperialità del verbo può sciogliersi solo, saturninamente, tristemente – e gloriosamente – nell’esoterismo della santità/sapienza, che è sempre la pietra scartata su cui è fondato l’intero edificio.

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