Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 23 marzo 2011

Oportet enim


Perché Beatrice deve morire? Perché Cristo deve morire? Perché lo starec Zosima deve morire – e puzzare? Perché le immagini devono essere distrutte? Perché la Ka‛ba dev’essere demolita? Perché l’icona mentale della Devi dev’essere tagliata in due con la spada del discernimento? Credo che la risposta più ricca – non una spiegazione, siamo troppo prossimi alla densità delle archai – stia nella visione dello statuto ontologico del creato insegnata dal Doctor Maximus, Ibn ‛Arabī: ogni creatura è nulla in se stessa, e Dio in Dio. Come ha detto Florenskij, l’icona è più e meno di se stessa: è un povero pezzo di legno ricoperto di tracce colorate – ed è l’oggetto stesso che vi è dipinto. Così Beatrice è la Sapienza Divina stessa, eppure il cibo che entra nella sua bocca soave va in merda, e il suo corpo va in merda, come quello del cane e di Hitler, come i cieli e la terra. Il trauma di questa morte, della morte, essendo iniziatico, non può essere davvero compreso, ma “solo” patito intimamente – e la trasformazione accade: la donna amata ora è tra i morti, ed è tanto più immagine, tanto più presenza. La morte di Beatrice è il fanā’ di Beatrice: la taglia in due, e la installa “oltre la spera che più larga gira” (ultimo sonetto della Vita Nuova), nelle dimensioni superiori, che sono più nostre di ciò che ci circonda nel pellegrinaggio terrestre, nell’utero dell’attesa.

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