Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 26 marzo 2011

Parlando di James Hillman e altro con un amico


Gli archetipi rimossi ritornano come pathe di anima, a cui ineriscono; il Dio-Pneuma rimosso ritorna come Giudizio. C’è un’evidente analogia, ma un’ancor più forte discontinuità: l’oblio, il disconoscimento, la mancanza di rispetto e attenzione per gli dèi-archetipi è la hybris dell’io titanico, che sconta l’evacuazione dello spazio rituale con l’invasione di ritualizzazioni inconsce e coatte; il rifiuto dello Spirito Santo, del Dio trascendente, è il perpetuarsi del ‘mondo’ col suo contenuto di ignoranza-brama-avversione che prepara in una sorda angoscia la propria escatologica confutazione.
Il thymos eracliteo, anima desiderante, che si proietta sulle cose, si attacca alle cose e in qualche modo le ‘crea’ nella loro separatezza di oggetti, oggetti-del-desiderio appunto: ‘compra’ ciò che vuole, crede di appropriarsene, e il mezzo, il corrispettivo di questo baratto è l’anima, l’anima principialmente ignea, consumata nel distacco. Solo nel distacco si possiedono interamente le cose; il desiderio le spezza, le separa dalla trasparenza dell’anima, le oggettiva e ‘mercifica’ col suo vischioso attaccamento. L’anima di Eraclito è ottima solo se asciutta, infuocata, assetata: distaccata da ‘tutte-le-cose’; diventa umida, e quindi dionisiaca, quando discende verso le cose, inebriata, alla mercè di tutto, instabile. Ma, come per Dioniso, questa caduta nell’umidità della natura e dell’immaginazione è un’iniziazione, l’inizio della resurrezione, dell’epistrofè: è la morte necessaria e insieme gratuita, casus e ananke.
Insomma, l’attaccamento dà via l’anima, la aliena; il distacco la riacquista, la riconduce a sé. Ma il distacco cos’è, se non morte? E quale morte sperimenta l’anima al di fuori della valle d’ombra di immagini vaghe e fluttuanti, lontana sia dalla calda e ribollente estroversione del thymos che dalla contemplazione centrata nel Nous, rivolta verso il Nous? Pneuma-Nous e Psychè si incontrano, come sposo e sposa, come i due serpenti sul caduceo, a tratti, a momenti: ed è proprio il Dio superiore al Nous stesso, il Dio che è Pneuma nel senso di Gesù e di Paolo, a dare a Silvano dell’Athos il precetto della fedeltà all’anima – “Mantieni la tua anima negli inferi, e non disperare”. Mantienila negli inferi, nell’inferiorità, nella bassezza che è abiezione e profondità, Penia essenziale bramosa di concepire Eros, privazione che è il centro iniziatico, il perno, dell’universo (“Se io non fossi, Dio non sarebbe Dio”, Eckhart – “Noi diamo a Lui ciò con cui Egli si manifesta attraverso di noi”, Ibn Arabi). “E non disperare”: non letteralizzare, non fidarti della tua fiducia, di te. Abbandonando l’anima, ti abbandoni all’anima – e in essa allo spirito. Spirito e anima si oppongono come maschio e femmina, come picco e valle, come unità e molteplicità – un’opposizione gravida di Eros, di Amore, l’Amore del Simposio, mendico, ermetico, inclassificabile, errante, quell’amore che è l’essenza dell’apparire, dell’apparenza, figlio di Penia e di Poros, di materia e di forma, quell’amore che è “figlio pate e marito” di Psiche, della profondità femminile dell’essere.

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