Najm al-dīn ibn Ḥasan
al-Baghdādī, faqīh affascinato dal sufismo, di famiglia persiana con
remote ascendenze mazdee, fu sospettato
più volte, negli anni della Miḥna, di essere un cripto-zindīq, un
manicheo larvato da buon musulmano. Poeta squisito e convenzionale, giurista
rispettato per l’equilibrio e la probità, per dissipare i dubbi pubblicò una
ponderosa Risāla fī ‘l-nikāḥ (Trattato sul matrimonio) che intendeva
essere un monumento all’ortodossia sunnita. Molti lodarono, con la solennità
impaziente dell’invidia, l’ambizioso disegno dell’opera: tutto ciò che nella
mistica era “accettabile” vivificava il paziente arazzo di commenti giuridici,
amplificazioni esegetiche sobrie ed eleganti, citazione dotte e mai
inappropriate. Solo il mukallim Yūnus Abū Raḥmān, un oscuro professore
che alla sua morte lasciò un corpus inequivocabilmente ismailita, scovò
nel capitolo sull’origine profetica del matrimonio un passo (da lui definito,
in una lettera al Califfo, un “cenno d’intesa settario”) meno catafratto, più
tenero e fluttuante, degli altri:
“...onde è evidente che le
nozze, proprio in quanto rendono lecita e anzi santa la generazione,
manifestano la volontà divina di volgere al bene ciò che di per sé sarebbe un
male...”
Abū Raḥmān chiosò: “Se c’è
qualcosa di evidente, in queste righe velenose come la coda dello scorpione e
tortuose come la sua impronta sulla sabbia, è che il faqīh degli eretici
sostiene la seguente tesi: il manicheo può salvarsi compiendo con un’intenzione
occulta ciò che perde tutti gli altri; l’effusione del seme in un grembo,
supremo fra i peccati per quei cani adoratori di Iblīs, viene redenta dal
pensiero che lo sposo rivolge al suo gemello celeste disprezzando la sua sposa
terrestre...”.
Al-Baghdādī fu allontanato da
ogni carica, e sottoposto a pubblica umiliazione; Abū Raḥmān divenne uno degli
eresiologi più stimati e temuti del suo tempo. Come sempre, tutti avevano detto
la verità, e la menzogna, figlia prediletta dell’anima, aveva celebrato il suo
illusorio trionfo.
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