Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 2 agosto 2013

One and One are One



Il mio gemello ed io siamo nati nel quarto giorno della quindicina calante della sesta luna: giorno eccezionalmente infausto; e ancor più eccezionale è che i miei genitori abbiano chiamato me Dono Oscuro e mio fratello Chiarore Occidentale. Mi spiego. Nostra madre ha avuto un parto orribile, che  ha lasciato vivi entrambi i figli, ma separandoli con un taglio netto, come di spada, come a riportare una severa immagine d’ordine nel caos cristallino di una coppia di gemelli. Ebbene, la mala stella che incombeva sulle sue doglie mi ha lasciato illeso – anzi, come vedete sono un giovane dalle membra proporzionate, non bellissimo ma nemmeno privo di doti – mentre si è sfogata sulla testa di mio fratello, Chiarore Occidentale, che è nato cieco e sordo. In altre famiglie del nostro clan un segno del genere sarebbe stato accolto con alti lamenti e li avrebbe indotti, quasi forzati, ad esporre l’infante agli dei del bosco, con fretta sacra, prima ancora della seconda notte. Noi, invece, discendenti del nobile Cervo Rosso, siamo fatti così: il bimbo è cresciuto insieme a me, come una strana benedizione. Ed era davvero il mio gemello, il mio doppio destinato: silenzioso, distante, con il suo sorriso leggero e attento, accompagnava i miei giochi come un’ombra lucente, come una bambola animata da un soffio gentile. Tutti lo amavano nel nostro clan, e quanto agli altri, ovviamente, era come se non esistesse. Cosa importa di un sordo cieco, quando c’è da pensare alla guerra con i Lunghi Corni, al magro raccolto di tuberi, al furto di cavalli dell’ultimo novilunio? Sapete, io sono di indole bizzarra: mio zio, Tuono di Primavera, era addirittura sicuro che la mia pasta fosse quella di uno sciamano, di un asceta, di un potente guaritore. Mah! L’unica cosa di cui sono stato sempre sicuro io, a parte della mia inclinazione per le donne e per la pace, è di questo ardente desiderio di conoscere la vita sepolta di Chiarore Occidentale, il mio gemello, il mio compagno di giochi. A volte ho trascorso giorni e giorni con gli occhi bendati e le orecchie turate dall’argilla, ma invano: io so che la capanna ha una certa forma, un certo volume, che il tempo fluisce nel suo alveo tripartito, che il sole e la luna e gli astri misurano la vicenda degli animali e degli uomini, nonché quella dei fratelli che meditano sulle loro radici barbute. Anzi, ho pensato spesso che il suo cuore fosse quello di una pianta flessuosa e delicata, che non divide i pensieri e quindi non si avvita in passioni: ma che so io, della felce che saluto al mattino? Che so io, del fratello con cui gioco alla sera? Un giorno – ero di umore tetro, e la mia ricerca giaceva nella polvere come un oggetto disprezzato, come un idolo di sterpi lasciato a disfarsi dopo una cerimonia religiosa – mi sedetti accanto a lui, con le gambe incrociate, imitando i suoi gesti, la sua postura tranquilla, il suo volto al contempo sigillato e indifeso. Gli chiesi, ben conscio della mia malinconica stupidità: “Che mi dici, fratello? Com’è il tuo cuore? Come tocchi il mondo dei padri?”. E restai in attesa. Chiarore Occidentale aveva sentito la mia presenza – avevo mosso l’aria, e odoravo di resina, e poi non saprei: come suo solito, allungò la mano pallida e massiccia, col fremito di una piantina che si volga alla luce. Mi commossi, e dimenticai la mia domanda insensata. Ma ad un tratto il mio gemello – così uguale a me nei tratti che solo uscito dalla tenda mi avvedo di non essermi bagnato ad un fiume, eppure così diverso da me nell’espressione del viso da ricordarmi ogni volta i giocattoli, i giocattoli che non abbiamo mai avuto – d’improvviso il mio gemello, dicevo, mi afferrò il braccio destro e lo strinse con vigore straordinario. Chi sono io, per lui? Che cosa gli arriva, nella tenebra lucente del suo cuore? Ho la consistenza di un uomo, ho il peso del mondo? Sono un ricordo, o un messaggio sempre nuovo? Oppure si protende verso se stesso, e non deve nemmeno assorbirmi, trascinarmi tra i semi-vivi, tra i semi-morti, perché sono un membro del suo corpo, un muscolo del suo braccio, un nervo che lo attraversa di colpo come uno sparviero in volo, come un insetto strisciante? O magari – e la suggestione mi fece lungamente rabbrividire – Chiarore Occidentale non è mai nato, è sempre nel grembo di nostra madre, Luna Piena dell’Alce Scornata, e mi mostra un passato, un futuro, che nessuno degli eroi del mio clan potrebbe sfiorare nemmeno al termine della sua cavalcata più memorabile?

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