Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 27 luglio 2010

Appunti su Parmenide


Provo a rileggere Parmenide attraverso Florenskij e Wittgenstein (che strana coppia! E che ancor più strana triade!).
Il reale è l’esistenza, l’Uno-Tutto. Le idee-archetipi sono i possibili (universali e necessari), che la mente umana astrae dal continuo dell’esistenza. Dalla prospettiva umana, i possibili (idee) sono più reali del continuum materiale e della percezione particolare, che pure sono simboli della concretezza ultra-noetica e ultra-possibile (il plotiniano Uno). L’atomismo delle forme si è imposto come soluzione filosofica delle aporie zenoniane (-parmenidee) sull’Uno-Molti, il vuoto fisico come risposta all’enigma del non-essere e del continuo. Ma perché l’Essente parmenideo è stato presentato come un’astrazione, come una sorta di gioco di prestigio mistico-filosofico? (È una questione affine a quella del Vedanta). La sfera-uovo è piena di contenuto, non è un grande guscio formale! (O meglio, c’è anche una parte formale, logico-categoriale, dell’insegnamento parmenideo, ma la pessima tradizione del testo, e la non migliore ricezione, ha forse spinto alla confusione tra i diversi piani). Per scoprirne il contenuto, credo sia opportuno ricorrere allo sguardo fenomenologico – un po’ come fa il buddhismo Mahayana, che però ha un logos troppo culturalmente-spiritualmente distante. Del resto, le “due vie della dizesis (della ricerca razionale, del logos-discursio)” non possono essere applicate ad ogni noema, ad ogni conoscenza intenzionale (diciamo così)? “Tutto è in tutto (in tutte le cose)”, l’intuizione anassagorea-ermetica non può essere una chiave dell’essere parmenideo? Ogni eon come manifestarsi concreto di tutto l’eon: la sfaira di Aletheia (la Manifesta) come quarta dimensione realizzata in ogni nostro atto di vita-conoscenza (la sfera il cui centro è dappertutto e la cui circonferenza non è da nessuna parte – una sorta di coincidentia tra gli opposti dell’infinito e del finito, un infinito attuale?). Ma è davvero possibile leggere in questo modo i frammenti parmenidei? La comprensione del nous fa già problema: credo che per superare il ‘mentalismo’ post-rinascimentale il ricorso a Wittgenstein sia indispensabile, o quasi.
Il noein come il ‘pensare’ di Wittgenstein, l’uso normativo di simboli? In effetti il nous è sim-bolico, rende (riconosce come) reciprocamente presenti (pareonta) i lontani (apeonta), realizza (il pensare come fare!) la continuità dell’Uno-Tutto come Uno-Molti (eon tou eontos echestai). L’eon è dunque il simboleggiato (ouneken esti noema) all’interno del quale accade il nous-noein che lo realizza riempiendolo di contenuto (ou gar aneu tou eontos... eureseis to noeinto gar pleon esti noema). Ma cosa può garantire l’identità di noein ed einai se non la giustizia, dike-ananke-aletheia, la stipulazione universale (la berith ebraica, il mithāq coranico) in sé vuota, nel senso che è manifesta solo nelle particolari espressioni culturali umane (il noema riempie l’einai)? Si obietta: ma allora come fondare questa idea di un tutto limitato, di un insieme di tutti gli insiemi, di un universo che è immanente a tutti gli universi e tutti li trascende? Qui il finitismo di Wittgenstein avrebbe di che demolire: si tratterà di un’intuizione mistica che non può entrare nel logos se non nel modo normativo-legislativo, profetico, dell’annuncio parmenideo?
Il nous si rende presente (paristatai) all’uomo come la crasi simbolica delle sue membra molteplici: è un vedere come, uno sguardo simbolico-organico. La meleon physis è ciò che rende l’uomo-microcosmo connesso al macrocosmo (vedi Florenskij sul corpo)?
Importante: il nous, interno all’eon, in quanto attività, noein, lo realizza-riempie. La dea incontrata da Parmenide giovinetto (kouros) è forse Afrodite, che congiunge simbolicamente i sensi al simboleggiato, alla platonica idea?
L’eon come “il mistico” di Wittgenstein? Non può essere detto, ma mostrato – eppure chren to legein eon emmenai... Forse il pensare e il dire appunto mostrano (rivelano) il Tutto-Essente, e il non-senso della filosofia (e della poesia) è l’esperienza-limite, il gioco-limite segnato dalla mania. Il pensare e il dire non comprendono-oggettivano il Tutto-Essente, ma lo rivelano – e il pensare-dire della poesia e della filosofia possono rivelarlo caricandosi della paradossalità del limite-confine. La filosofia, per non farsi ‘metafisica’ (nel senso heideggeriano-wittgensteiniano di super-fisica), può entrare nello spazio aperto dalla (della) poesia, farsi esegetica-dialettica alla luce della poesia – e del linguaggio comune.
Poiché il “mistico” di Wittgenstein è così affine al timore-stupore che riconosce la creazione (e che secondo la Bibbia è il principio della sapienza, reshit chokhmah), l’essere di Parmenide può essere forse riletto alla stessa luce: non la luce della creazione, però, ma quella che illumina la Manifestazione orfica librata sulla Notte principiale.

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