Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



giovedì 8 luglio 2010

Conversazione nella periferia romana (redazione definitiva)


I.

Ma dimmi, amico, quando
la giovinezza è caduta
dal dolore veggente del poeta,
dai suoi solchi di luce notturna,
quando ne è stato fatto
un ceto, un universale
post rem
, una classe
di uomini incerti e vigorosi
per succhiargli il vigore e manovrarne
– ipnotizzata bene – l’incertezza?

Questo pensavo tra una tappa
di deserto e l’altra
della via Casilina,
periferia d’un centro mai stato
perché la città – ricordi, amico? –
è l’invenzione con cui Caino
cercò di mitigare l’espiazione, di differire l’incontro
maledetti dell’Eden, unitevi
e in uno stridore concorde
di manette mentali ben oliate,
o male, dove lo punto
il compasso, e quale raggio dovrei mai
determinare, se il cerchio
è figura di quiete fremente, di ricolma esattezza?

Li vedo, come li vedi tu, i giovani
che forse fummo, e che morendo
saremo, forse, li vedi come cercano
di consistere con quello che hanno
– gadgets, smorfie, eroi sempre più irridenti
la loro fame non più puerile (non c’è
età più violentemente, ingordamente ascetica
della giovinezza) la loro fame
giovanile ed eterna
di bellezza, la mortale, la giusta
bellezza di un destino comune,
il mio, il tuo, il destino
solitario e comune cui ci chiama
anche e soprattutto questo cielo?

Le tue torri, Roma
mia, Roma tua, non difendono
con le loro ossa tutte uguali
ma stigmatizzate da arcana,
secca, inaudita scrittura
là dov’era il midollo, non possono
difendere nemmeno una pecorella, un’anima
variamente smarrite, un filo
d’erba, un gatto, dalla smorfia
di Medusa del nostro evo: non fanno
che cingere un bivacco di immagini
sempre più pallide, un bivacco
di giovinezza sempre più orba.

Neanch’io ti vedo, luna, sebbene
al limitare estremo della mia giovinezza
e con un occhio tagliato nel cuore
dal sapermi nomade: eppure ti penso,
non indifferente né salvifica,
non onnisciente, non
galileiana né armstronghiana, ti penso
come un animale o un sasso, luna,
come farebbe una strada qualunque
della Roma mia e tua
che non vuol sopravvivere davvero
ma stare e consumarsi alla tua luce
e alla tua ombra dolci sul massacro.

II.

Una cosa bella è una gioia per sempre,
una cosa brutta tortura il cuore
e la carne fino al corno
di Elia, fino all’occhio del Giudice.
Ciò che mi tiene avvinto in aeternum
a questa città, è la sua vocazione
all’apocalisse: tutto in lei, ogni cosa
– il bello che fu promessa di bello
ed ora, morto, manda vaticini,
il fu-bello non morto, vampiresco,
e il troppe volte morto, e la piena tranquilla
del brutto d’ogni età – in lei tutto
mi costringe all’estremo orizzonte
come una pistola puntata
a un orizzonte contratto. La città
(la mia) è una pistola
apocalittica, un teatro
di falsa morte, inquieta,
alla meglio sedata,
dove il bene, il bello, sono dettagli
catastrofici, colpi di scena
subito esatti dal buio, incidenti
di percorso, stradali. Qui l’abisso
della noia chiama l’abisso
delle cose ultime, le cose di Dio
aperte in una luce di disastro.

III.

Ma i giovani, amico, i giovani
che non siamo mai stati, che forse
ci è dato essere tra una parola
e l’altra, tra due pensieri già vecchi,
come attenderanno le cose ultime
se non gli fioriscono dal sangue,
se non gli accestiscono dal seme,
come fanno a gonfiarsi, a partorire,
come gli riesce di morire
se non hanno più un corpo?
Per questo la bellezza nemmeno li offende
o trafigge: soltanto al principio
li infastidisce, poi li attraversa
lasciando al massimo l’uovo e lo sperma
– disgiunti – di un rimorso. Talvolta
quando li sento bestemmiare
così compiti e tetri, a bocca larga
di sonno, quando li vedo
arrancare sui binari indegni
di indegni padri, col passo
di un vecchio vagone
avviato al deposito, se non fossi vile
più di loro, li prenderei per il collo
in pace, ardentemente,
senza il levame di un sogno
da gettargli in gola, se potessi,
asciutto e consumato, gli urlerei:
Spogliatevi di sky, della vostra banca
che è differente, toglietevi il breil
intoccabile, strappatevi di dosso
l’ipod, i jeans, il tatuaggio, la
maglietta marchiata dal negriero
fatuo delle sfilate, sfilatevi i boxer
fosforescenti, i bra televisivi,
il tedio della scuola e del weekend,
il ghigno dell’autobus, la smorfia
dell’happy hour, lasciate cadere
abbronzature e debiti pallori,
rinunciate alla timidezza arrogante
dello sguardo, scrostatevi i sensi
dalla città, dal ghetto, dalle morbide
astrazioni del secolo: vi prego,
abbiate il corpo che vi è stato dato
quando non eravate, e tutto intero
datelo al tutto, e a niente e nessun altro,
gettate il vostro pane sulla faccia
delle acque, nei flutti lebbrosi
del Tevere, buttatevi a fiume,
e dopo molti giorni, molto a breve,
praticamente subito, troverete sul fondo
l’albero e il gatto, la morte e le stelle,
le cose prime, per la prima volta
aperte nella tenebra lucente
della vostra difficile aurora.

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