Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



giovedì 1 luglio 2010

Elia Benamozegh e la nascita del cristianesimo dall'ebraismo


Ovviamente, le apologie sono... indifendibili. Eppure sono preziose, necessarie, perché costringono a pensare – e spesso lo fanno magnificamente. Uno dei libri più stimolanti che io abbia mai letto è Ortodossia di Chesterton, una buona metà del quale mi pare ancora del tutto ingiusta e francamente irritante.
Insomma, le apologie, il logos usato per mettersi sulla difensiva e respingere... Tanto più quando vantano la superiorità di una morale (la propria!) su un’altra. Ma per Benamozegh (per ogni spirituale) la morale è fondata sulla teologia, e infatti la sua brillante e ‘perfida’ (vecchio aggettivo liturgico cristiano!) polemica sulle ‘morali’ è quasi incomprensibile senza il suo arduo ma necessario studio sulle (indimostrabili) origini cabbalistiche del cristianesimo.
La controversia giudaico-cristiana è tutta presente, folgorata in una scena eterna, nell’interrogatorio di Gesù davanti al sinedrio. "Sei tu il Messia, il figlio del Benedetto?". "Voi lo dite!". Benamozegh è finissimo nell’esegesi: il Messia, cioè il Figlio, sei tu – coincide con la tua persona? Risposta: voi lo dite; lo dite voi. Né sì, né no, o l’uno e l’altro, come spesso accade nei Vangeli. Gesù si proclama, ora con veli e reticenze, ora tuonando, il Messia, ed anzi, stando alla maggior parte della tradizione ebraica (quella non-apocalittica, non gnostico-apocalittica), più-che-Messia. Il suo annuncio del Regno imminente spezza – ma non annienta – la disciplina dell’arcano che in ogni tradizione separa e congiunge l’essoterico e l’esoterico; lacera il velo del Tempio, simbolo della mediazione che il Testo scritto, offrendosi alla lettura, opera tra nascosto e manifesto, tra acque superiori e acque inferiori. Da un certo punto di vista Gesù, mostrando l’eschaton, riporta la tradizione alla sua arché, ma non c’è dubbio che il suo insegnamento e i suoi gesti, i suoi segni, la spingano anche alla rottura e all’autocontraddizione – origine di tutte le tragiche antinomie paoline. Certo Gesù resta all’interno dell’orizzonte ebraico e Paolo invece è già il profeta di un esodo drammatico e ambiguo, paradossale, la cui carica dirompente si rivolgerà, sebbene in modo del tutto diverso, anche contro la tradizione ‘pagana’, cioè ellenico-romana. Ma Paolo, nonostante Nietzsche, Tolstoj e talvolta Benamozegh stesso, non è l’artefice di uno strappo di cui Gesù non è affatto responsabile: è il traduttore di una visione e, come i primi califfi, interpreta per filo e per segno il mandato del Profeta, pur facendo cose che il Profeta non avrebbe riconosciuto come proprie.
Ma veniamo alla tua destructio destructionis. Sicuramente l’apologeta è un retore, e spesso utilizza gli strumenti di una dialettica interessata, proiezione di quel grande io che è il noi della comunità religiosa: e quindi è quasi inevitabile l’effetto pagliuzza-trave, che spinge magari anche un non cristiano, quando legge Benamozegh, a simpatizzare coi cristiani e un non ebreo, quando legge diecimila pagine di teologia cristiana, a simpatizzare con gli ebrei. Alcuni anni fa ho studiato il Radd al-jamil, un trattatello in cui un teologo musulmano medievale legge il Vangelo di Giovanni e vi trova tutti gli elementi per confutare la divinità di Gesù e la Trinità di Dio. Il punto di partenza della sua esegesi è questo: parola di Dio è Gesù (in senso islamico, ovviamente), non il Vangelo, che quindi (a differenza del Corano) abbonda di versetti che vanno letti in modo ‘allegorico-figurato’, non letterale. Dice poi una cosa interessantissima sulla divinità di Gesù, ma ora andrei fuori tema. Comunque, ci siamo capiti: io posso deletteralizzare la tua tradizione, tu non puoi farlo con la mia. O meglio: esiste un nucleo che non è ulteriormente interpretabile, e quel nucleo c’è anche nella tua tradizione, ma io posso vederlo in trasparenza, tu no, perché la mia tradizione è più vicina all’arché, o all’eschaton, della tua. Insomma, tutto dipende da dove finisce il liquido dell’interpretazione e dove inizia il solido, il ‘limite’, il non-plus-ultra della fede centrale, indiscutibile. Personalmente credo che questo teatro dell’assurdo delle controversie tra le religioni abramiche sia nato dal gesto fondatore dell’ebraismo stesso, la sua ‘uscita’ dalla tradizione mesopotamica e poi egizia, sentite come idolatriche: ma il vero arciproblema è che l’ebraismo non è morto, a differenza di Babilonia e di Tebe, e nonostante la sua infinita complessità non ci si può discutere con la svagata libertà con cui un esoterista del Rinascimento discuteva con i geroglifici. La lettura allegorica segnala sempre una morte: Paolo uccide in sé l’appartenenza ebraica, l’Israele spirituale che la Chiesa dice di essere è un Israele ucciso. Ma Israele non può morire, è questo il mistero del suo destino così ambiguo.
Quindi, è tutto vero quello che dici su Benamozegh, ma ho qualche osservazione da farti. Prima: il nostro rabbino non identifica ortodossia cristiana e gruppi gnostici, anzi dice che l’ortodossia cristiana si è definita separandosi dagli gnosticismi, che erano forme di qabbalah eterodossa (secondo lui, ovviamente). Non dà nemmeno una ‘lettura unica’ dell’ebraismo, anche se effettivamente ha una sua grandiosa e un po’ tranquillizzante idea sull’unità metastorica dell’ebraismo, Torah scritta-Torah orale. Seconda: dice che Gesù striglia i perushim (farisei) proprio perché si sentiva parte di quel mondo religioso, anche se portava un messaggio che quel mondo non poteva accettare totalmente. Non dice mai che Gesù era folle e male informato, dice l’esatto contrario: che tutto il dialogo di cui abbiamo tracce spesso confuse nei Vangeli era un botta-e-risposta a base di koan, provocazioni e colpi bassi (o di fioretto) dialettici su un terreno spirituale comune. Terzo: è vero che sono troppe le semplificazioni sull’anticosmismo cristiano contrapposto all’equilibrio giudaico, ma non si può negare che il cristianesimo (è la sua ricchezza e la sua miseria, come sempre accade alle cose grandi e tragiche) sia culturalmente sradicato, ed abbia cercato un difficile radicamento nel mondo greco-romano, diventandone (parafrasando l’Epistola a Diogneto) l’anima. Ma un’anima orfica, platonica, aristotelica? La cultura dell’ecumene è stata salvata, ma anche svuotata: Diana è stata assimilata a Maria, ma la Diana del popolo ‘pagano’ è rimasta come signora delle streghe. Noi possiamo mangiare di tutto, senza catene di kasherut, ma non abbiamo nulla per pensare il nostro rapporto col cibo in senso spirituale, se non il pragmatismo paolino. Paolo ripete il gesto di Gesù e lo rende ancor più tragico: svela il fondo esoterico (tutto è puro per chi è puro), ma questo fondo, se portato alla superficie, se diventa l’ispirazione di una società, di una cultura, toglie profondità religiosa invece di rendere presente il Regno in cui la Legge è ormai abrogata perché giunta a pienezza. L’‘ambiguità’ di Benamozegh ruota intorno a questi pochi e immensi temi: la polemica sulla ‘morale’ è parte di un disegno che si può intuire pienamente solo leggendo le quasi mille pagine di Israel et l’humanité – impresa da me compiuta circa tredici anni fa, e nonostante le sue diecimila ingenuità credo ne sia valsa la pena.

In effetti il discorso di Paolo sulla legge è un ginepraio di intuizioni mistiche, tensioni apocalittiche e antinomie ermeneutiche. Non voglio ritornare sulla vecchia questione del suo riduzionismo: il nomos delle Epistole non esaurisce certo la totalità della Torah nel senso della tradizione ebraica. Penso che si possa essere d’accordo su una cosa: Paolo porta all’estremo, al limite, una delle idee del messianismo ebraico: "L’annullamento della Torah è la sua conferma (o: la sua resurrezione)". Idea sommamente dialettica ed esposta ad amplificazioni esoteriche (gnostiche) e forzature apocalittiche. Riflettiamo: la fede nell’avvenuto avvento del Messia sostituisce alla Torah del Giudizio (limitante e coattiva) la Torah della Grazia, che è in un rapporto non lineare con la prima. Nel Regno, l’albero della conoscenza si assimila all’albero della vita: ma il Regno portato da Gesù è un Regno incipiente, un’attesa, un tempo intermedio, in cui "tutto è lecito, ma non tutto mi giova", e gli unici precetti che non vengono abrogati sono quelli comuni a tutta l’umanità, i cosiddetti precetti noachidi (quelli comandati a Noè dopo il diluvio). Inoltre al rituale ebraico subentra un rituale di memoria-annuncio fondato sulla vicenda umana del Messia: soprattutto l’Eucarestia, la cui mistica è il centro della vita cristiana. Inoltre, la "legge" ebraica viene dichiarata ormai inefficace, superata dall’Evento messianico, ma il cristiano, nell’attesa del Secondo Avvento, assimila la cultura giuridica dell’ecumene romana – e nonostante la sua vita nel mondo sia un perpetuo esodo, come per l’ebreo, sicché le forme storiche assunte dal Messaggio-Kerygma sono sempre provvisorie e imperfette, non si può negare che il problema esista: allontanandosi dalla tradizione dei Padri, dalle radici ebraiche, l’attesa cristiana ha dovuto trovarsi altre radici, quelle del mondo in cui si è inculturata, l’Impero romano. Certo, per cristianesimo e islam questa dialettica è stata resa inevitabile dal trionfo mondano, mentre paradossalmente l’"identitario" ebraismo, reso marginale dal destino della diaspora, è stato al tempo stesso più legato alle proprie fonti e più aperto alle continue assimilazioni – è stato più esoterico, più ermetico (non per scelta, ripeto, ma per destino). L’ebraismo è diventato l’esoterico del mondo cristiano-islamico, il margine del Testo: e la teologia del deicidio e della sostituzione ha fatto dell’Ebreo il Cristo sempre di nuovo ucciso perché lo Spirito potesse essere effuso sulla cristianità intera.

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