Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 4 luglio 2010

Madrid 11 marzo 2004 - a un mese dalla Pasqua


Dov’è il fiato che ama
nel bozzolo del fiato che s’incrina?
Lo sapevo, ma l’ho dimenticato,
non mi sono concesso di morire.
Facile
entrare nella vacanza di ciò che sorge e svanisce,
facile il chiaro ossequio, prima o dopo.
Eccomi qui, dove resto, silenzioso
nella fibra più aguzza e tenera del grido,
nel sangue più limpido dentro all’acqua del grido.
Lascio gridare, sui miei resti, il grido.
Capisco perché ci danno questa morte, capisco
che il sogno di sangue vuole portarci
un brandello di veglia senza fiato
un resto di visione senza faccia
in cui la nostra faccia colossale
si dischiuda dal guscio della luce
dalla placenta torbida dell’aria
dalla colla amorevole del fiato.
Capisco che la bomba voleva qualcosa
come la grazia e la tortura, qualcosa
come sgravarci di noi stessi, ora,
tutti insieme e del tutto, come assisterci
di colpo nella cecità necessaria
del parto che ci era destinato.
Veniamo al buio mentre aleggia stanco
ad una luce troppo quieta e ovvia
l’angelo decisivo che avevamo augurato.
 
+ + +
 
Dov’eri tu quando mettevo
nei suoi ranghi Orione?
Quando intrecciavo le Pleiadi
e distillavo la pioggia?
C’eri tu quando disegnavo le zampe
e il cuore dell’ibis e tentavo il suo canto?
Ora m’avvedo, ho sentito abbastanza,
le orecchie sono pregne, hanno rotto le acque,
adesso è tempo di vedere un poco,
tornino su dalle rotaie gli occhi
salgano su dalle reni stuprate
è ora che vedano, perché giusto ora m’avvedo
che non c’è da rispondere al Tremendo
quando sciorina il circo tumultuoso
della Sua tracotanza, non c’è
risposta alla nostra bassezza,
alla Sua altezza solo questo silenzio
comprende tutto in basso come in alto,
questo silenzio infilato nel grido
inchiodato nel muscolo che trema
del mio fiato.
Non c’è risposta, che non sia la bassezza
del silenzio e l’augurio della bomba,
la disfatta ridente e madornale
di Chi inquisiva, no, patrocinava,
anzi teneva in grembo l’imputato,
anzi lo era, e il turgore agghiacciato,
nel trionfo, del Pubblico Ministero,
(una presentazione del circo, una mirabile
intimazione d’ordine assoluto),
di chi si fece avanti tra i figli di Dio
con l’aria del più geloso, del più iniziato.
 
+ + +
 
Dove sei, mio respiro?
Che hai fatto? Mio guardiano,
guardiano e custode di tuo fratello,
chi t’ha detto ch’eri nudo?
Chi t’ha permesso di crederlo?
Chi t’ha insegnato a sfuggire l’ira,
a gridare su dalla terra,
a non parlare davanti al tosatore?
Dove sei? Dov’è finito
l’amore del tuo pellegrinaggio
il tuo accogliere spazio
la tua umiltà furente di crisalide?
Dov’è iniziato ciò che non inizia,
il nostro cuore, il fiato del fiato,
lo spirare a vuoto,
la pienezza più tenera e feroce
nel mio niente e nel tuo, lo Spirito Santo?
Per che, per chi mi hai abbandonato?
 
+ + +
 
È un tappeto di lamenti
perché le anime non hanno la forza
di lamentarsi per bene senza un appoggio,
un interprete, uno che sappia le lingue,
è un roveto di trilli su dal fondo
della bassura più libera e strana,
un salterio di telefonini
irraggiungibili al momento, o quasi,
se non che, in un modo o nell’altro, va aiutato
il grido nel suo viaggio, e vada pure,
vada dove deve, non dove può,
vada finché la terra e chi la abita
ha ancora in vista dei buchi di cielo,
finché la vacca Europa sempre profuga
conosce ancora un’aria di muggito,
uno spazio canoro devastato,
finché basta lo strazio fondo e lieve
dei suoi telefonini a sostenere
il volo dell’interrogazione,
l’unica grazia, il resto, l’esplosione
dei cuori e dei respiri che ritornano
sul colle che ha esibito ogni bassura.
 
+ + +
 
Dove sei fiato? Fratello, Signore,
dove vai?
Adamo, vai a farti confutare
contro il legno dell’albero ancora?
Dio mio Dio mio perché
non mi hai abbandonato
alla facile morte
di ciò che, forse, non era chiamato
ad essere Figlio,
ad essere in Te stesso consumato?


- Domenica delle Palme 2004 –

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