Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 13 giugno 2011

Corpus spirituale


La luce del De luce è quella della fase seconda e mediana nelle cosmogonie arcaiche, la luce-suono, vibrazione (onda)-corpuscolo, corporeitas ovvero forma della corporeità, inchoatio formarum ovvero cominciamento delle forme (visibili), della terza fase, in cui si delinea la dualità luce-materia. La luce del trattato di Grossatesta è la luce creata della Genesi, del Fiat lux, e insieme la manifestazione della “caligine luminosa” divina, dell’ineffabile Luce increata dello Pseudo-Dionigi. La ricchezza infinita della Divinità, suono silente e luce oscura, esce di sé, si comunica in un graduale precisarsi delle polarità originarie: così la “caligine”, l’Immanifesto, la profondità divina originaria si manifesta piuttosto nella (presunta) inferiorità ontologica della materia, del thou wa-vohu inseparabile dalla forma luminosa, espressione creata dell’originaria tendenza-tensione all’autoconoscenza, all’offerta di sé in altro.
Il punto luminoso, agganciato alla ricettività della materia, è l’intersezione fra la IV dimensione dell’aion e il mondo tridimensionale, misurato-generato dall’azione della forma sulla materia, entrambe semplici. Questa semplicità-spiritualità, che si può intendere come adimensionalità o come sovradimensionalità, dà origine alla geometria del mondo creato attraverso una diffusione o propagazione continua. Il finito nasce da una ‘moltiplicazione’ infinita (o piuttosto diffusione continua) del semplice, del punto originario (ricorda un poco la teoria degli insiemi di Peano, che mette a fondamento dei numeri lo 0); pitagoricamente, i numeri sono rapporti, generati dall’interazione dell’uno e della diade, della forma e della materia, dalla rhysis continua del punto.
Il punto che si espande in sfera è la manifestazione della IV dimensione nel ‘mondo’ tridimensionale: la ‘prima sfera’ o corpus spirituale, materia traslucida, è il firmamentum-raqi‛a come separazione-mediazione tra immanifesto e manifesto, tra acque (vibrazioni) superiori sovraformali e acque inferiori formali, variamente coagulate-pietrificate nel mondo ‘di veglia’, visibile e confinante con la morte. È la volta del mondo, il luogo di confine in cui il mondo si rovescia come un guanto.
La natura indecidibile della luce, onda-particella, ne fa il corpo spirituale o la forma corporea per eccellenza: attraverso la luce-occhio si vede, ma la luce non si vede. La luce, in senso proprio, è Dio, o almeno il Deus Revelatus, Dio in quanto si manifesta: quando si chiama ‘luce’ qualcosa al di sotto di Dio lo si fa per via di metafora (mi pare al-Ghazali), per analogiam. La polarità luce-tenebra genera i colori, le forme visibili, ma è piuttosto la luce del quarto giorno; mentre la polarità luce-materia individuata dal Grossatesta sembra riguardare la luce e la tenebra del primo giorno, la luce formale e la resistenza-opacità-plasticità della materia prima. Tutto, nel creato, è forma-materia, luce-materia, corpo spirituale più o meno denso, discreto e continuo, finito e infinito.
Il punto di Grossatesta e la perla bianca (durra baydā) del hadith, materia prima spirituale dell’universo, luce muhammadica, prima creatura.

La spissitudo essentialis di More si manifesta chiaramente nelle distillazioni alchemiche e omeopatiche: è la densità dello spiritus, la sua elasticità, la sua peculiare extensio che va cercata per così dire verticalmente e internamente rispetto alla tridimensionalità dei corpi. (Il tema già aristotelico della proporzionalità inversa tra estensione e potenza).

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