Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 14 giugno 2011

Rileggendo le Sentenze di Porfirio


Parto da Parmenide e dal suo uso del termine tò mè on, il non-ente: a differenza di ou(k), negazione assoluta, oggettiva, è negazione relativa – indica un non-essere che non è il nulla (logicamente-metafisicamente impossibile), ma un approccio diverso all’essere-che-è, ‘qualcosa’ che è in qualche modo legato all’ente.
L’ente è, il non ente non è. Di fronte a qualcosa che è, che viene a noi come immagine, non abbiamo da cercare altro, o altrove: è, si manifesta, si ostende, si dà. Di fronte all’ente, possiamo rispondere in due modi: tenerci congiunti all’ente attraverso l’attenzione, in modo che al fondo della nostra contemplazione, silenzioso, implicito, sia custodito l’Uno, lo sfondo di semplicità che è nell’ente, al di là/al di sopra dell’ente (ma non da un’altra parte! Per utilizzare una metafora pitagorizzante, è come un armonico, un ipertono scaturito dal suono che stiamo suonando); oppure possiamo uscire dall’ente, separarci dall’ente con un atto di disattenzione che produce un’astrazione menzognera, un non-ente che è negazione (impossibile) dell’ente. Questa astrazione è l’approccio dualistico all’immagine, all’ente: non essendo presenti a noi stessi e alla cosa, proiettiamo e ipostatizziamo un sostrato di nulla a cui si sovrappone l’essere della cosa. Così la materia, non-ente al di sotto dell’ente, limite infimo dell’emanazione, specchio capovolto dell’Uno che ne è il limite supremo, svela la propria natura giocosa, illusoria, inconoscibile, che noi solidifichiamo in “passione menzognera” lasciandocene irretire: letteralizzando. La materia è una sorta di letteralizzazione del riflettersi dell’Uno: o meglio, è il riflettersi dell’Uno che ci tenta, ci provoca alla letteralizzazione, pur rimanendo giocosamente inafferrabile ad ogni letteralizzazione.
L’uso del verbo pro-noein (lett. avere una prenozione) allude a ‘qualcosa’ che precede il nous (l’intelletto-contemplazione), che sta sullo sfondo del nous, irraggiungibile dal nous in quanto tale, sempre ulteriore (‘come’ la materia: inafferrabile, eppure intimo all’ente. Hermes insegna: Ciò che è in alto è come ciò che è in basso).
Secondo Plotino e Porfirio, ‘sperimentiamo’ l’Uno nell’ekstasis, quell’uscita da noi stessi al di sopra di noi stessi e dell’ente che si riflette nell’estasi dell’anima verso la materia, nell’uscita da noi stessi al di sotto di noi stessi e dell’ente (il termine usato è lo stesso). Secondo Proclo e Giamblico, poiché l’Uno è al di sopra dell’essere e del pensiero può essere ‘conosciuto’ solo nel silenzio dell’azione sacra, nel rapporto teurgico con i “simboli muti” dell’iniziazione.
[Nota bene: per non letteralizzare la gerarchia neoplatonica dell’emanazione, ricordiamo che, se l’estasi verso l’Uno si riflette nell’estasi verso la materia, c’è un rapporto in qualche modo reciproco. L’ignoranza inferiore è specchio di quella superiore e mistica. La ‘distrazione’ con cui l’anima esce da sé verso le cose materiali, con cui si esteriorizza, se ritorna su se stessa (la ri-flessione, il ri-torno che è l’essenza del fare anima), è proprio lo stupore radicale, la perplessità di fronte all’essere in quanto tale che caratterizza il culmine della contemplazione e che è l’‘esperienza’ dell’Uno. Insomma: dove c’è una gerarchia, c’è sempre un rapporto dialettico, circolare, come quello Signore-servo così bene studiato dall’appassionato Corbin...]

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