Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 11 ottobre 2013

Plotino e le tette





“Cercava sempre la nutrice, anche se andava già alla scuola di grammatica, fino all’età di otto anni; le scopriva le tette, bramoso di poppare. Ma una volta la sentì dire: ‘Che disastro, questo bambino!’ e, vergognatosi, se ne astenne” (Porfirio, Vita di Plotino III)
L’amore di Sofia e l’amore della tetta unum et idem sunt. Il punto in cui entrambi cominciano a suggere veleno e nevrosi è segnalato dal sospiro di una nutrice (non della madre): “Che disastro, questo bambino!”. Il puer, allora, sperimenta la ritrosia, il timore, la castità che ritualizza e benedice l’Esilio, la Caduta. Il flusso di quel latte tenuemente salato, il turgore sanguigno, ubriacante del capezzolo, risorgeranno nella sati, nella contemplazione, nell’indolente fruizione dell’unità, del nous, mammella divina e dunque androgina, come quella del Re del Cantico dei Cantici.
Oggi i genitori di Plotino chiamerebbero ansiosi lo psicologo, e ben prima degli otto anni: la passione tardiva, l’immaturità affettiva sarebbero normalizzate, troncate e sopite. Nessuno gli direbbe che è un disastro di bambino, anche se magari si vergognerebbe lo stesso. Ma cercherebbe, poi, nell’istante della morte, suprema maturità e nascita ultima, di congiungere il divino che è in lui al divino che è fuori di lui – il latte della nutrice e il bianco nutrimento della sapienza, l’assillo umano della nevrosi e il pungolo dell’eros celeste?




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