Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 16 ottobre 2013

Varie ed eventuali





Proust dice, magnificamente, che i sadici veri, quelli che godono della sofferenza altrui in quanto tale, sono rarissimi: per lo più si infligge dolore con l’idea di una giustificazione, di un equilibrio, sentendo o pensando che il patiens se lo meriti. Il principio del kosmos è al fondo della nostra più ripugnante akosmia: anzi, è proprio ciò che rende la mixis, la mescolanza del grano e del loglio, così perfettamente angosciante, così perdutamente scandalosa. D’altronde, il puro umorismo e il puro orrore nei confronti del male sfolgorano soprattutto nell’idea religiosa, che gli conferisce e nega consistenza: nell’idea di Dante, secondo cui l’anima ritorna a ciò che le piace perché proviene da un creatore che è “lieto”, che è pienezza di beatitudine; e “s’inganna” correndo dietro ai piaceri creati perché le suggeriscono, nella Caduta, il piacere buono della Patria abbandonata, il Giardino delle Delizie.

Imbarazzo degli autori di cartoni animati per bambini: quando demiurgicamente comunicano il soffio dell’anima a un essere rendendolo amico del personaggio principale, sono costretti ad escluderlo dalla sua dieta, dal circolo troppo arcaico del sacro e del sacrificio. Il sentimentalismo moderno getta ogni cosa nell’apeiron, che sottraendo i limiti annienta la conoscibilità. In epoche religiose gli uomini avrebbero riso del maiale o del bue, li avrebbero umanizzati pur scannandoli e arrostendoli, ma con la rituale ilarità che accompagna le cose più gravi, con la nuda consapevolezza che anche chi ride viene accompagnato ad un altare o può esserlo in qualunque momento: che se addomestichi l’animale animalizzi l’uomo, supremo animale sacrificale, bestia tranciata in due dalla spada a doppio taglio del Logos.

Lo storico Ibn Wāsil riporta un racconto dell’emiro Ḥusām al-dīn: questi avvicinò il santo re di Francia, Luigi IX, prigioniero a Manṣūra, ed elogiandolo per le splendide virtù cavalleresche e la prodigiosa intelligenza gli chiese come mai si fosse risolto a mettere in pericolo la vita sua e dei suoi uomini attraversando il gran mare per un’impresa evidentemente disperata. Il recluso eccellente si limitò a sorridere. L’emiro lo incalzò: nella loro legge chi si imbarcava più volte su quelle acque per brama di ricchezza o altra incomprensibile passione veniva ritenuto inadatto a testimoniare in un processo. Luigi chiese perché, e l’uomo rispose che un simile atteggiamento denota una chiara infermità mentale. Il prigioniero sorrise ancora, ed esclamò: “Per Dio, bene ha detto chi ha detto così, e non ha errato chi così ha giudicato”.
Lo Stupor mundi, Federico II, fiero avversario del papa (“il loro califfo”) e spregiudicatamente filo-islamico in politica, ben noto per il suo disprezzo di ogni religione positiva, viene ritratto dallo storico Ibn al-Jawzī mentre, vittorioso a Gerusalemme, compie atti di cortesia verso la popolazione musulmana: e tuttavia lo scrittore non riesce a contenere un certo disprezzo quando lo descrive piccolo, di pelo rosso, calvo, miope, tale che al mercato degli schiavi non lo si sarebbe venduto nemmeno per pochi soldi.
Il rispetto tra nemici fiorisce in una follia condivisa, che traccia una distanza inequivocabile, delimita un campo di battaglia che è anche un campo da gioco. Saladino, il sunnita perfetto, il fanatico ben centrato sul proprio asse interiore, persecutore di sufi e ismailiti, viene omaggiato dai poeti e dai cavalieri cristiani. Luigi di Francia, il pazzo cui in un tribunale islamico non si sarebbe mai concesso di deporre, viene colto dallo storico degli Ayyubidi mentre un’aura di fulgida sprezzatura regale magnifica l’umiliazione della sua prigionia.



Nessun commento:

Posta un commento