Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 16 novembre 2011

Adonai yir’eh


per Nicola

“Padre, posso dirti una cosa?”.
“Dì pure, Isacco”.
“Sai che anch’io sono stato chiamato ad essere profeta?”.
“Lo so”.
“Come fai a saperlo?”.
“Come potrei non saperlo?”.
“E non mi hai detto nulla?”
“Cosa avrei dovuto dirti?”.
“Ti prego, smettila di rispondermi con delle domande”.
“Te lo dico oggi, allora: non mi piace che anche tu sia stato chiamato, ma mi compiaccio della volontà di Dio”.
“Che vuoi dire? Pensi che essere un profeta sia così terribile?”.
“Non lo penso. Lo so”.
“L’hai sperimentato”.
“Lo sperimento ad ogni battito di ciglia”.
“Vedi, tu non mi hai mai detto, fino ad oggi, cosa sentivi della mia chiamata; e io non ti ho mai fatto una domanda, che mi pesa sul cuore e mi amareggia il pane e il vino”.
“Fammela oggi, ti prego, figlio mio”.
“Quando Dio ti chiese….”.
“Ho capito”.
“Ricordo che salivamo sul monte, e mi sembrava un cranio impolverato, semisepolto, l’immagine di ogni vergogna e di ogni squallore. Cercavo di guardare solo i miei piedi, riuscivo a pensare solo a tratti, e mi affluivano immagini, non potevo stringere nulla. Mi attraversavano il cuore rapide immagini di irrisione, di stanchezza, di futilità. Sentivo che avevi il fiato grosso, e il ritmo della tua camminata era meno sciolto e potente del solito: rigido, sempre in ritardo o in anticipo, leggero – l’incedere di uno schiavo. Tutta la mia angoscia si concentrò in una domanda, proprio come oggi. E tu mi rispondesti. Ricordi come?”.
“Non lo dimenticherò. ‘Dio stesso provvederà l’agnello, figlio mio’”.
“Perché dicesti così? Pensavi che Dio mi avrebbe risparmiato?”.
“No”.
“Dunque pensavi che sarei morto per tua mano, sgozzato dal tuo coltello”.
“Non dire sempre: pensavi, penso. Cosa c’era da pensare?”.
“Non è un pensiero dire al proprio cuore: Ora prendo il coltello, ora la legna, ora faccio il fuoco, ora slego l’asino…”.
“Ma tu pensi di essere profeta, o lo sei?”.
“Lo sono e lo penso”.
“Sei molto giovane, ragazzo mio. E nel tuo soffio dolce e agitato – chiudo gli occhi e ne sento la musica, che mi accompagna da quando sei nato – si sono mischiati il riso nobile, desolato, spogliato di tua madre e la paura mia, la paura tua, di quel giorno, con la legna sulle spalle, la solitudine dell’ascesa, la fredda lama del coltello nel fodero, nella mano. E la freddezza ancora più fredda, la freddezza mattinale, umiliante, del miracolo”.
“Anch’io serbo nel cuore tutto questo, come un’unica parola di Dio. Ma la parola che mi è stata data, il soffio che mi ha fatto rizzare i peli, è diverso dal tuo. Io ricordo i piedi, lo sporco, la stanchezza tua e mia, e quei due fulmini, inspiegabili: la mia domanda, la tua risposta. Parevano scoccate dall’angoscia stessa, ma all’improvviso: come un desiderio d’amore che percorra le membra dopo una giornata di fatiche vergognose”.
“È vero. E l’una e l’altra sono parole di Dio”.
“Perché dicesti proprio così?”.
“Come? Parli sempre della mia risposta?”.
“Sì. ‘Dio stesso provvederà…’”.
“Non so perché”.
“Se non ti piace ‘pensavi’, ti dico: credevi, eri convinto, sentivi che sarei morto?”.
“Non lo so. No, non lo sentivo”.
“Dunque eri persuaso che Dio mi avrebbe salvato”.
“No”.
“Ma allora, perché quelle parole? Cercavi di coprirmi gli occhi di fronte alla mia stessa morte?”.
“Questo meno di tutto, figlio mio”.
“Cerca di spiegarmi. Altrimenti nulla ha senso, per me. Nemmeno la mia chiamata, soprattutto la mia chiamata”.
“Non c’era molto da pensare, Isacco. Dio mi aveva chiesto di sacrificargli il mio unico figlio”.
“Tutto qui?”.
“Ci ho pensato un po’, dopo. Vedi, anch’io penso! Ma sembravano le tracce quasi del tutto lavate, o riassorbite, di un incontro d’amore: gocce che ora senti limpide come la gloria del cielo primaverile, ora penose e sudicie come il minuzioso marcire di un volto necessario”.
“Padre mio, proprio ora che dici parole tanto simili a quelle che sempre mi ripete il cuore, ti vedo lontano come un antenato di cui si custodisce, di cui si gusta solo il nome, e la luce di un paio di gesta”.
“E ho pensato: tanti prima di me avevano ricevuto quell’ordine. Soprattutto re, re importanti. Anzi, in alcune città era un rito, una tradizione: il sovrano, il fulgido servo di Dio, doveva offrire il primogenito a Colui che gliel’aveva dato. Perché tutto è suo. Anzi, tutto è Lui. Io ci sono nato, in quest’aria: ne sono impregnato. Forse non puoi capire: ormai Harran è per me come un sogno breve e un po’ grottesco, di quelli che si fanno appena prima del risveglio; eppure la sua aria mi impregna ancora. E in quell’aria c’è il pianto del primogenito, un bambino di pochi giorni, condotto da suo padre, in silenzio, tra i simboli del dio, verso la pietra arrossata”.
“Un po’ lo capisco, invece. Continua”.
“Ma tu sai, figlio mio, che io non sono un re. Mai stato. E quando sacrifico una bestia, lo faccio così, alla buona – la accarezzo, la accompagno nel suo transito a Dio. Non mi metto quei paramenti lì, non mi faccio sovrastare da statue come quelle di Harran – quegli dei di pietra dalle membra oltraggiosamente piene, dalle orbite fisse e serene nella potenza. Io sono un vagabondo, un poveraccio, anch’io come te mi guardo solo i piedi, e la polvere che li avvolge, infinitamente dispersa, infinitamente mutevole. E quando Dio mi chiamò e mi cacciò via da Harran, da un momento all’altro, e mi fece balenare la promessa di una terra, e poi di una discendenza… Tutte cose che sai. Mi promise la tua nascita. Un miracolo, cioè una povera cosa – una cosa da tutti, da tutti i giorni – che splende in una luce di novità, come la prima e l’ultima, come qualcosa che rimette tutto in cammino, che mette fretta ad ogni pietra, ad ogni asino, ad ogni nuvola”.
“E io sarei un miracolo”.
“Una benedizione, una pace, un frutto spaccato”.
“Io”.
“Sì. E quando nascesti, il mondo intero venne a umiliarsi e a ridere davanti a colei che aveva riso, davanti a quella vecchia regina – lei sì – ornata dal sudore di un parto incredibile. Non ti dico nulla dei tuoi primi anni, dei miei affanni, delle mie gioie segrete. E poi Dio mi chiede di sacrificarti”.
“Sembra esserci una contraddizione”.
“Chiamala così. Io ci ho pensato solo dopo”.
“Voglio dire: una contraddizione tra la promessa e la richiesta di sacrificarmi”.
“Puoi chiamarla così. Per me fu uno squarcio di coltello nel petto”.
“E trovasti la forza di obbedire”.
“Mi alzai dal letto col petto squarciato, col petto squarciato preparai legna, fuoco e coltello, dal petto squarciato uscirono gli ordini per i servi, il sussurro che ti svegliò, l’unica parola che ti dissi nel cammino”.
“Appunto quella”.
“Dio mi aveva promesso te, la benedizione di un figlio e di una discendenza. E mi aveva imposto di offrirti in olocausto. Come i re che sacrificano il primogenito, a Harran. Ancora loro: sempre lì si ritorna. E no, che non si ritorna: ti è stato dato un figlio, un riso d’incredulità, un riso di pace incredibile, impossibile. Dio mi ha dato, Dio mi toglie: questi sono pensieri, solo pensieri. Io prendo legna e coltello, che altro posso fare? E vado. E aspetto. Nemmeno aspetto: sto lì. Col petto squarciato. Da una parte la promessa, dall’altra il sacrificio. Tutto insieme. Tutto qui. Ma è mai possibile? Perché, la nascita di tuo figlio è stata possibile? E allora sottomettiti, servo di Dio: amico sì, per grazia, ma in sostanza sempre servo. Tutto è suo, tutto è lui: il resto è sogno, un dito sull’acqua. E no: la promessa, la parola data. O è amico, o non è amico. Ma sei anche servo. Togli l’anche: tutto insieme, tutto insieme. E non c’è spazio per respirare? Sì, ma solo per respirare: per un respiro solo. Vai sul monte, così sarà fatto. E mentre vai, tuo figlio ti fa una domanda. Certo, non è mica uno senza voce in capitolo, in questa faccenda. Non è che debba starsene zitto, fare la sua comparsa, e morire in silenzio dopo essere nato fra grida di dolore e di giubilo. Non è regolare. E mi fa una domanda: Ecco il fuoco e la legna, ma dov’è l’agnello per l’olocausto? E io sento che rispondo così”.
“Non hai voluto dire quelle parole, non le hai cercate, non ne eri consapevole?”.
“Non le ho cercate. A te posso dirlo, tu puoi capirmi: sono le parole a cercarci e a trovarci. Ma si aprono una via nella carne come il figlio nell’utero della donna: con accessi di nausea, pesando sul ventre e sul cuore, tirando la pelle, facendo bollire il sangue con voglie, rabbie, stupidaggini, paure”.
“È vero”.
“Non le ho cercate. Ma ne ero incinto. E mi sono uscite con un balzo, aprendomi la bocca come una vagina: so che non guardavi, perché ti ricorderesti quanto ero brutto e schifoso”.
“Io ricordo che è l’unica domanda che ti ho fatto in vita mia senza guardarti in faccia”.
“Sì, infatti”.
“Ma il suono era dolce, sembravi mia madre. Questo mi fece rabbrividire”.
“Ed è per quei brividi che oggi cerchi una consolazione, una luce”.
“Soprattutto una luce”.
“Dio stesso provvederà l’agnello. Io sto salendo, so che mi ha promesso la discendenza, le stelle, la sabbia, so che mi ha chiesto di sacrificarti. Nient’altro. Era l’unica risposta. Non l’ho plasmata, messa insieme, pensata. L’ho partorita, e ha reso impura la mia bocca”.
“Ma non vuol dire che ti affidavi a lui per uno scioglimento del nodo, dell’imbroglio, dello strazio?”.
“Sì, mi abbandonavo, ti abbandonavo a lui, ma come un lottatore che sta avvinghiato all’avversario. Perché lui è mio amico”.
“Un amico che ti chiede cose simili”.
“Credi che Dio ti ha creato?”.
“Certo. Che c’entra?”.
“E chi vuoi che salga il monte, chi vuoi che muoia sul legno…”.
“Cioè tutto è Dio?”.
“No”.
“Che cosa stai dicendo?”.
“Creandoti, ha scambiato con te ogni cosa, ti ha dato ogni cosa. Non c’è più un rifugio alla sua misericordia: solo la sua misericordia lo è. Ma non è un’oasi, è il sogno di una donna incinta, l’avvicinarsi della carne, del parto. Chi sei tu? Chi è lui? E il ventre si apre, e la sua imboccatura è soffocata, strozzata dalla testa di chi nasce. Un cranio, ricoperto di sangue: ma la partoriente, il partoriente non lo vede. E poi il primo grido, e tutto il resto: ma è sempre così. Sempre una gravidanza, sempre una nausea. La misericordia è nauseante, perché tutto è in attesa, tutto è sospeso”.
“La misericordia è…”.
“Non è una bestemmia. Parlo per esperienza”.
“…nauseante”.
“Ogni voglia, la voglia di una gravida. Ogni dolore, il dolore di una gravida. E la gravida non sa, se non che attende, soffre, coltiva, fa spazio. Tutti i timori, i sospetti – come sarà, quanto vivrà, ma sono davvero incinta o sono semplicemente malata, magari folle – sono la stanchezza, il lavoro, l’impensabile umiliazione di questa gravidanza”.
“Dunque tu attendevi, tu attendi. E io sono così diverso da te – solo ora mi sembra di capirlo, così impaziente, troppo impaziente per partorire la parola, per essere profeta”.
“Non si può che essere impazienti, quando si attende. Ormai hai uno sperma in corpo: è giusto che tu sia nauseato, e a maggior ragione impaziente. Anch’io lo sono”.
“Impaziente di che, ormai?”.
“Impaziente della nostra nascita comune, che non immaginiamo”.
“Non so se riuscirò ad arrivare al nono mese, padre”.
“Aggrappati a questo non sapere, con indecenza, con vergogna. Non temere le consolazioni: sono troppo povere per diventare idoli, il tuo sguardo ne farà vapore. E non temere le desolazioni: o meglio temile, e basta, e porta in corpo il tuo sperma. Se devi pensare, pensa al corpo”.
“Buonanotte, padre. Mi hai lasciato così – più nudo di prima”.
“Buonanotte, Isacco. Che Dio ti copra con la sua veste – anche se è meno terribile essere nudi”.

Nessun commento:

Posta un commento