Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 4 novembre 2011

Appunti presi all’INPS


Un aforisma di Cioran: “La menzione delle noie burocratiche (the law’s delay, the insolence of office) tra i motivi che giustificano il suicidio, mi sembra la cosa più profonda che Amleto abbia detto”. È vero. La burocrazia, maledizione necessaria oltre la misura taoista, arcaica, del villaggio che fluisce nell’alveo delle consuetudini umili e sacre, è un riflesso pauroso e noioso delle gerarchie angeliche e delle loro dispensazioni nel motoso labirinto umano. La sua magica foresta di dilazioni, la sua sontuosa e grigia complessità, il suo cerimoniale imperscrutabile, il suo gergo esoterico schiacciano il pover’uomo, soffocano i suoi slanci, gli impongono un ritmo interiore che sacrifica preliminarmente ogni dignità, un’oscillazione piuttosto regolare tra uno stupore vegetale e una fuga della mente in infiniti rigagnoli di compromessi, aggiustamenti, propiziazioni.
Delay potrebbe essere uno dei nomi del saeculum: nella teologia sciita (ad esempio in Molla Sadra) si parla del ta’akkhur, il “ritardo” dell’essere nei confronti dell’Essere, dell’uomo e del cosmo caduti nei confronti del loro Principio. L’insolence, poi, è inseparabile dall’office: mentre l’impersonalità della legge, essendo un velo sull’incontro personale con il giudizio, è una muraglia che protegge il debole, l’impersonalità dell’amministrazione pubblica, essendo un mero velo sui vizi personali degli amministratori, non può che offendere l’offeso e ammiccare al prestigioso.
Potente è colui che fende le sfere angeliche come uno sciamano, come Maometto, come Dante, e volteggia come una scintilla dell’Empireo nella plenitudine della sua libertà, coronato e mitriato sovra se stesso. Ma di un riflesso maledetto si tratta: e dunque il superuomo, l’iperuranio, colui che può disprezzare le minuziose mortificazioni dell’apparato burocratico, è di solito, per la sua immonda indifferenza, condannato a proiettare un’ombra ripugnante su tutto ciò che tocca. Il pover’uomo, il povero cristo seduto nella sala d’attesa, in piedi per la fila, lasciato a sobbollire nel suo brodo, a incantarsi davanti ai muri sporchi, a contenere e ad esibire la propria esasperazione, ad avvilirsi in ciarle da incantenato, in contatti pavidi, duri e insostanziali, non manca mai, invece, di mostrare anche all’occhio meno sensibile (ma la memoria fatica ad impregnarsi della rivelazione) uno stigma di luce schermata, profetico e messianico: un povero Cristo, appunto, modellato dagli sputi, dagli schiaffi, dall’insolence of office, dalla mascherata iniziatica che lo accompagna ad una gloria di chiodi e di spine, ad una morte in cui tutto il mondo, sempre di nuovo, si addensa a seme. Il potente non muore, è soffiato via.

“E mi volsi a contemplare tutte le oppressioni che si fanno sotto il sole – ed ecco pianto di oppressi e nessun consolatore per loro – e dalla mano degli oppressori la forza e nessun consolatore per loro” (Qo 4,1). È esattamente questo il male del mondo: che non vi sia, che non appaia, che non si manifesti un consolatore (menachem) – un messia – né per quanti patiscono, né per quanti esercitano la forza. La forza è contaminazione che scorre tra le due estremità, tra i due poli della spada, osservava Simone Weil: il messia è operatore di shalom, ovvero di integrità, quindi confuterà e purificherà nel fuoco la vittima asciugandone finalmente le lacrime, e sanerà la ferita nel cuore del carnefice sbattendolo finalmente contro la roccia. Il menachem sarà il perfettamente impensato e il perfettamente atteso, perché non possiamo essere accompagnati a noi stessi se non oltre un periplo di giudizio che ha la misura di tutte le cose.

“La terra è data in mano al maligno – copre la faccia dei suoi governanti – se non è lui, allora chi è?” (Gb 9,24). Yikasseh, dal verbo kassah: coprire, nel senso di velare, accecare, ma anche dimenticare, condonare, perdonare. I tre membri del versetto tracciano con furiosa esattezza l’intera parabola mondana: la terra, l’universo visibile e tangibile è abbandonato, posto, consegnato nella mano del maligno, in potere del satana, dei satana, dei malvagi – egli (il maligno? Dio? l’ultimo colon scioglie il dubbio con una domanda retorica che è un trionfo d’amarezza, di consumata angoscia) copre la faccia dei potenti della terra, vela il loro cuore e i loro occhi, nasconde o cancella la loro persona, la loro intima essenza, la copre come sangue versato, come una vergogna, li protegge, li scusa, li assorbe nel suo disegno, li integra e annienta e salva loro malgrado – se non è Dio, allora Chi è (e Mi?, “Chi?”, è uno dei nomi supremi di Dio), chi sarà mai, chi mai può essere? C’è un nesso sottile, segreto, che va nascosto, coperto, tra la prima rivelazione, enorme, e la seconda, un fascio d’ombra tagliente: la molteplicità teofanica di Dio è data in potestà dei distruttori dell’ordine, e chi è chiamato a giudicare, a guidare, a riparare, non può, non deve vedere, anzi gli shofetim della terra sono complici dei reshaʻim, anzi sono i reshaʻim; Dio li vela e li copre, li acceca e li preserva, con scandalosa crudeltà e più scandalosa misericordia – una misericordia che rende lievissimi i giudici e rende certa e infallibile la tortura dei giudicati, dei miseri, dei miti, che prendono una consistenza, uno spessore, una lievitazione di gloria quasi del tutto indicibile. I giudici sono marionette, bambole e bambini, vanno trattati come li tratta Dio, con terribile leggerezza: una leggerezza che li maledice e li danna (in ebraico maledire è, tra gli altri, qillel, la forma pi’el di una radice che significa levità e inconsistenza), ma che è anche l’unica salvezza loro offerta, perché tutta la loro sostanza, la sostanza divina investita in loro, il loro essere, è stato preso in carico dalle loro vittime, dai santi, dagli amici di Dio, dai glorificati, dai pesanti, la loro faccia o immagine o persona è stata seminata sotto la terra abbandonata al loro dominio per germinare in altri, per crescere su altre facce, per arricchire i segretamente ricchi, coloro che mettono a rischio il capitale e ricevono anche i talenti degli altri, dei timorosi, degli umbratili, degli inesistenti, in modo che niente vada perduto e tutto sia uno.

1 commento:

  1. la nascita della pubblica amministrazione, tema foucoltiano classico;
    come negare che l'uomo, animale riutale, abbia organizzato la gestione della cosa pubblica come un grande insieme di riti e procedure? uffici dove si officia.. Simboli, timbri e giuramenti. Il burocrate sacerdote, medium che rilascia, comunica, esegue l'interesse pubblico di cui è mandato essotericamente incarnato.
    La PA nasce con la secolarizzazione, vampirizza la vita sacra e gli arcana imperii fa della sovranità regola e non eccezione, regola emanata da una legge data e non concessa nel mistero a qualcuno.
    weberianamente religione di stato, mera funzione, se l'economia deriva dall'oikonomia sacra la burocrazia è, a sua volta, laicizzazione della vita ecclesiale, della regola.

    Oggi il viandante kafkiano non aspetterebbe davanti alla legge, ma forse davanti ad uno sportelllo

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