Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 11 novembre 2011

Pensieri sul vegetarianismo


È quasi impossibile muovere obiezioni etiche al vegetarianismo. Del resto, l’etica è un’invenzione o una prospettiva che non appartiene all’integrità arcaica, in cui affondano quasi tutte le azioni umane, la ritualità umana come sintesi vivente, simbolica, di celebrazione e teurgia, accettazione e critica, ripetizione e rinnovamento. Nella vita antica l’alimentazione vegetariana rientra in un sentiero spirituale che è un nesso unitario di voti difficilmente separabili: di solito l’accompagna l’astinenza sessuale e nel suo insieme si configura come una rottura con le abitudini mondane, che si fondano invece su una ritualizzazione più o meno consapevole della carnalità, delle passioni, del samsara – e quindi dell’amore fisico, dell’uccisione di uomini e animali, della dieta carnea. L’atto del sacrificio animale ricorda e conserva alcuni tratti del mondo ancor più antico, arcaico, in cui i cacciatori conoscevano predando e predavano conoscendo, in un intreccio tragico di aidos ed esaltazione, trepida sensibilità e brutale coraggio: ma come actus tragicus, come rappresentazione teatrale archetipica, come rito che fonda e plasma la comunità, l’uccisione dell’animale attraversa tutte le culture, la nomade, la contadina, la urbana sacrale e poi semiprofana e poi imperiale. Sacrificando l’animale si riconosce implicitamente la sua somiglianza con noi e insieme la sua differenza: l’animale è un nostro parente, un parente divino, velato, misterioso – anche noi siamo animali, abbiamo una struttura conoscitiva affine alla sua, eppure l’animale carnivoro non sacrifica e l’erbivoro non mangia carne. L’uomo, animale rituale, non conosce – se non nello spazio di alcuni riti orgiastici – l’esaltazione del predatore che, dopo aver inseguito la preda, affonda i denti nella sua giugulare o la fa a brani ancora viva. Il sacrificio dice: questo essere, che è mio parente, non è mia proprietà, appartiene agli dei, è un mediatore divino; uccidendolo consegno la sua invisibile sostanza, la partie de Dieu, all’invisibile, e introduco in me qualcosa che media tra morte e vita, un corpo morto ancora fremente di vita, che preservando la mia vita e nutrendola si trasfonde in essa, si nutre di essa. Il nutrimento è assimilazione d’anima, d’animale, nel caso dell’alimentazione carnea attraverso l’animale stesso. Quel che conta è che si tratta di un rito, quindi di un nucleo vivente che le varie interpretazioni non esauriscono: se diciamo che l’animale è assunto in una sfera più alta, coinvolto in un circuito trasmutatorio attraverso la presupposizione di un suo implicito consenso (che è implicita ammissione dell’animale nella domus umana, e quindi dell’addomesticamento), diciamo la verità, ma non tutta la verità. Del resto non c’è riflessione mitica che taccia il nesso tra una caduta dall’ottimo stato primordiale e l’uccisione sacerdotale degli animali da cui trarre nutrimento: ma questo non è abbastanza, perché ogni elemento della vita umana partecipa di questa caduta, anzi, ciò che chiamiamo uomo è questa caduta; anche il tentativo di una élite spirituale di riaccostarsi all’Eden astenendosi dalla carne animale e da ogni sorta di violenza.

Famosa obiezione antivegetariana: “Forse che cogliere e mangiare vegetali è un atto privo di violenza?” Non possiamo fondare un voto spirituale su congetture relative alla struttura sensoria e conoscitiva di un essere altro da noi: certo dell’animale presumiamo di capire di più, ma è impossibile separarlo troppo nettamente dal vegetale, che quasi certamente non manca di percezioni. Alla radice del vegetarianismo classico non c’è l’“antispecismo” di alcuni vegetariani contemporanei, che è contaminato dall’illimitatezza propria del pensiero moderno, evidentissima ad esempio nel dogma evoluzionistico (cui a volte i vegetariani “laici” indulgono): un antispecismo conseguente offre il destro all’obiezione appena citata. D’altro canto, nessuno nega che la nutrizione è o implica la distruzione di un’altra forma vivente, sebbene al contempo quasi tutti abbiano confusamente presente una notevole differenza tra l’uccisione di un animale e la raccolta e preparazione di un vegetale. Ma la differenza sarà solo nel fatto che l’animale grida e resiste visibilmente e udibilmente, come osserva in un magistrale pezzo di retorica Plutarco, mentre la pianta è silente e immobile, o almeno non dà segni a noi percepibili di rifiuto? Anche questo è abbastanza debole: sappiamo che le piante danno segni molto sottili della loro “volontà”, come direbbe Schopenhauer, o della loro “anima”, come la chiamerebbe Fechner. Ma una differenza c’è: ogni uomo sente che nel rapporto caritatevole con un altro essere deve entrare una considerazione, fallibile e aperta ma efficace, del modo in cui il secondo sembra percepire e sentire il mondo. E tuttavia anche questo non è risolutivo: alla base della cultura umana, e della spiritualità più antica e profonda, non c’è una compassione puramente sentimentale, ma una compassione radicata in una visione più alta, divina, degli esseri viventi. Non che la compassione arcaica prescinda completamente dalla sensibilità verso gli stati dell’essere che ne è l’oggetto, anzi: ma la radice, appunto, il fondamento, è un altro. Si punisce chi ha infranto una legge facendolo soffrire in vista di una sua trasformazione, che non è esattamente “il suo bene” nel senso moderno, ma presuppone comunque la sua adesione ad un patto sacro, ad un’alleanza, ad un voto comune. Si agisce come se il suo status sia qualcosa, non di volontario nell’accezione dell’etica, ma a cui è stato o può essere o dev’essere iniziato: si dà per certo che il fine di ogni nascita e natura sia una rinascita e una resurrezione. Analogamente, in modo diverso ma non contrastante, si considera l’animale, che non fa parte della comunità allo stesso titolo degli altri uomini, ma non ne è nemmeno escluso (sia l’animale libero e selvatico, scintilla divina che possiamo catturare spinti da una necessità che è anche un gioco – perché il mondo stesso è un gioco in cui l’unità divina si comunica agli esseri in un’opposizione sempre aperta, in una relazione sempre polare, antinomica, ambivalente – sia a fortiori l’animale addomesticato, su cui l’uomo esercita una signoria che a differenza di quella divina, di cui è immagine, è soggetta a vincoli assai pesanti e rischiosi, poiché anche l’uomo è un animale), come qualcuno che ha acconsentito implicitamente, silenziosamente, all’alleanza umana, alla cultura e al culto umano, di cui è l’uomo però a portare la responsabilità, la culpabilitas: e l’alimentazione è questa prova mortale, questa ordalia che non ha nulla di garantito, anche se la sua tragica sostanza induce fatalmente gli attori umani all’indurimento del cuore, alla banalità del male.

In altri termini, mangiare animali è un segno di caduta, come la divisione dei sessi e delle volontà, e quindi l’esistenza del potere e del tribunale e dell’ineguaglianza: ma la cultura umana non può che aprirsi una via nella caduta, e vivere nella tensione tra il tamas dell’eccidio dato quotidianamente per scontato e il sattva dell’élite spirituale che cerca di riparare l’immagine edenica attraverso la rinuncia e l’interiorizzazione. Il rito che media non è altro che la vita dell’uomo nella sua fragilità samsarica, la vita del “popolo” o vita ordinaria, comune, in cui la violenza della caduta è riattualizzata nelle forme che il sacrificio solleva in uno spazio di possibilità e necessità, il tragico (possibilità aperta dalla necessità): uno spazio così dinamico da confondersi ogni volta con il movimento discendente della caduta, pur essendone virtualmente la trasmutazione.

Quindi il fascino del sacrificio animale si riduce a questo, e non è poco: il sensus communis, il consensus gentium come volontà almeno implicita di “sporcarsi le mani” con il samsara, con la caduta, per indirizzarla al suo telos trasmutatorio. Per questo le religioni profetiche tendono a preservare la dieta carnea, santificandola: perché il profetico è la discesa della visione nel quotidiano, nel popolare, è la sorella povera e potente dell’alchimia resurrezionale; e invece le religioni gnostiche o sapienziali tendono a proporre direttamente un’estensione della dieta vegetariana, monastica, edenica, al maggior numero possibile di “fedeli” e praticanti. Nel profetico c’è un odore dionisiaco di sangue, un’esaltazione arcaica sotto le specie dell’ordinario, del materiale e del carnale: la visione dev’essere lievito, fermento alchemico.

Ho il sospetto che la dottrina orfico-pitagorico-empedoclea della trasmigrazione delle anime, che in epoca classica avrebbe dovuto secondo questi iniziati persuadere all’astensione dalle carni, in epoca arcaica fosse alla base di una visione generale del nutrimento, compreso quello carneo. Se ci nutriamo solo di anime, secondo il detto inuit, e se le anime o monadi sono in continua trasmigrazione, in un flusso perpetuo, allora tutto è in tutto, e ogni cosa (ogni atto) sarà un crocicchio in cui si incontrano e da cui si proiettano tutte le relazioni: quindi c’è una catena che va dal “nutrimento” invisibile e immobile del minerale, a quello primordialmente articolato della pianta, a quello della bestia erbivora e poi carnivora, in cui la caduta originale si manifesta per la prima volta in forma drammatica, a quello umano, in cui è massima la tensione tra colpa e redenzione, l’arco pontificale, sacerdotale, che congiunge la terra del bisogno e della crudeltà al cielo della carità e dell’armonia; per giungere infine al cannibalismo mistico, all’eucarestia che ricostituisce l’Uomo tramite l’Uomo stesso. Il predatore imita il verso della preda, si identifica con essa: il sacrificatore proietta se stesso sull’altare, e alla fine si mangia sempre se stessi, o comunque si mangia l’Uomo, perché l’assimilazione presuppone la somiglianza e anzi l’identità mistica.

All’uomo caduto è impossibile recuperare la natura, essere naturale, compiere atti naturali. Nel De radiis al-Kindi osserva che il sacrificio animale ha efficacia teurgica, magica, proprio perché l’animale patisce una morte contra naturam, voluta dall’uomo che così si carica del suo rischio, ponendosi sul crinale evanescente tra magia nera e bianca, stregoneria e propiziazione.

“Il cibo è mangiato dagli esseri e li mangia: per questo si chiama anna” (Taittiriya-Upanishad): il mangiare è un circolo, un flusso. Il primo corpo o guaina è quella fatta di cibo. Il mondo continuamente mangia ed è mangiato: dev’esserci stato un mithaq preesistenziale, in cui ogni specie ha manifestato il suo assenso alla creazione così com’è – e al tempo stesso la vita animale, la vita rappresentativa, sensibile, senziente, la vita di sogno dell’animale (di sogno perché il suo desiderio determina, delimita gli oggetti, le essenze, separandolo relativamente dalla radice, dalla scaturigine unitaria – è questa la sua angoscia) resiste angosciata al riassorbimento nel circolo, oppone un’individualità a ciò che è comune e transindividuale. Tale angoscia esprime sia la caduta, la rottura dell’armonia, sia l’estasi divina nel creare, l’abisso di stupore su cui si staglia la creazione. Ciò nonostante, la sofferenza animale è pura e la sua angoscia è (secondo Rilke) comunque volta all’Aperto, all’unità con Dio; l’autocoscienza e la ragione umane, che danno consistenza alla colpa e apprestano le condizioni per un’angoscia della morte ormai illimitata, onnipervasiva, fanno dell’uomo la crux dell’universo, il punto critico e decisivo, il punto più basso che è il punto della risalita, il criminale che si fa sacerdote (e il sacerdote decaduto a criminale). In lui il circolo del cibo raggiunge il culmine della propria tragica paradossalità: se il predatore animale, con la sua brama avventurosa, è investito da una sorta di libertà di affrettare la natura nelle sue prede, l’uomo cacciatore-allevatore, eroe-sacerdote, sente in sé una libertà illimitata che coincide con l’illimitata angoscia, il suo potenziale onnivorismo è l’espressione smagliante della sua passione di vita e di conoscenza, della sua super-animalità (e sotto-animalità), e si dà limiti solo per trasformare l’illimitato in infinito, per costruire ponti verso l’unità. (L’uomo è davvero l’animale malinconico, l’animale malato: dopo un certo livello di sofferenza e colpa si vive la morte, non si può tollerare il finito, tutto dev’essere impregnato di significato, di movimento ascendente, di luce che strazia e allevia).

“Lascia andare i tuoi rovelli, salvo quello morale! Hai detto bene all’inizio: non c’è obiezione etica al vegetarianismo. L’onus probandi ricade sul carnivoro, è lui che deve difendersi”.
“Non voglio parlare di accuse e difese. Mi interessa la vita, e la luce che può illuminarla. Sono convinto che la scelta di astenersi dalle carni provenga da un’attenzione trepida e intera al nutrimento e la intensifichi e prolunghi; e il vegetariano dal cuore davvero limpido non cadrà nella trappola della self-righteousness, sentirà che nemmeno mangiando miglio e cavoli si è innocenti”.
“Su questo siamo d’accordo. Il vegetariano che si lascia plasmare dalla propria dieta, dal proprio voto, non può non arrivare a sentire che tutto è interconnesso, che chi sbrana il suo arrosto di manzo non è separato con un taglio angelicamente netto dalla sua mensa carica di frutti della terra. Nel tempo, nella storia, grano e loglio sono mescolati in ciascuno, perché ciascuno è il campo di cui parla il Vangelo”.
“Mi piace sentirtelo dire. Ma allora, chi si salva?”
“Si salva chi trasforma quanto più male può nella propria sofferenza: ovvero, chi cerca di non dare ma di ricevere sofferenza, di trasferire la sofferenza dall’altare visibile all’altare interiore”.
“Ma capisci che così sostituisci al mattatoio visibile un mattatoio interiore? In sostanza, ci si libera dal sacrificio animale solo sacrificando se stessi: si cessa di rubare il cibo quando ci si fa cibo”.
“Sì”.
“Ciò è molto cristiano, anzi cristico”.
“Non solo. Anche il Buddha diede se stesso come cibo, sotto le eucaristiche specie di una lepre”.
“Ma come distingui il male dalla sofferenza? A volte sembra che per voi il male sia la sofferenza”.
“Male è la sofferenza, subita o inflitta, che non si apre alla luce. Quando la si infligge, ad esempio come pena, si deve supporre nel soggetto una volontà o almeno una possibilità di aprirsi alla luce: e ciò solo quando è strettamente necessario. Nel caso dell’animale, poiché non può essere reso parte a tutti gli effetti della comunità umana, è molto dubbio che tale necessità si dia. Perciò, come insegna il diritto, nel dubbio è meglio astenersi dal dare dolore o morte”.
“Mi sembra convincente. Ma voi parlate troppo poco dei vegetali”.
“I vegetali non sperimentano la morte come gli animali. Quando li mangiamo li distruggiamo, è vero, ma dobbiamo espiarne la distruzione senza per questo purificarci da un’uccisione. E non è solo per necessità che li mangiamo, separandoli dalla terra e assimilandoli a noi. Il vegetale è così lontano da me che posso legittimamente credere mi si stia offrendo, affinché io ne tragga luce: e la luce è il suo unico fine, dentro e fuori la terra”.
“Ma ciò è quantomeno dubbio. Non varrà anche in questo caso in dubio pro planta?”.
“Non dirò mai che nutrirsi è innocuo. Tutto è interconnesso, quindi niente è indifferente. Ma se non colgo la pianta solo perché non mi resiste, solo perché è un agnello che non bela, la porto fuori dal suo ventre e la introduco nel mio con la consapevolezza che ne vivrò e ne morirò: e in ogni mio atto e pensiero cercherò di farla risorgere come la purezza e la dirittura che in lei si manifestano, radicata o sradicata che sia. Perché la pianta è partecipe dell’eterno in misura maggiore dell’agnello, e a fortiori di un uomo”.
“Cosa pensi di chi si astiene anche dai prodotti animali che non comportano uccisione – il latte, il miele, le uova, la lana?”.
“Vuoi dire i cosiddetti vegani? Li approvo se non assolutizzano il loro radicalismo contingente, la loro fragile e preziosa testimonianza”.
“Che cosa intendi?”.
“Che non è sbagliato allevare gli animali se non li si uccide e non li si deruba del necessario. Anzi è questo l’unico modo legittimo di accoglierli nella nostra comunità. I crimini contro i quali testimoniano i vegani sono l’allevamento intensivo industriale, la macellazione aggravata da orrori di sterminio totalitario, la schiavitù più opaca di quella antica, coperta dall’ipocrisia più nauseante”.
“Devo confessarti una cosa”.
“Fallo senz’altro”.
“Tutto questo mi sembra incertissimo, opinabilissimo, indecidibile”.
“Ogni atto, anzi ogni pensiero umano è una creazione: qualunque certezza possa attingere, è pur sempre nella fede. Anzi, è una fede. Ma c’è un criterio che puoi seguire per afferrare un principio, un seme di certezza: sii consapevole di quello che fai, quindi anche di quello che mangi. Il resto verrà da sé”.
“Permettimi di dubitarne. Cristo, Ibn Arabi, Izchaq Luria, anche il Buddha, che non coltivava opinioni e teorie, non erano vegetariani: eppure chi potrà negare che, di fronte alla loro consapevolezza, noi siamo più ciechi di un sasso?”.
“Non lo nego. Del resto non nego nemmeno che mangiare carne animale possa essere lecito: non è lo stesso avere un dogma ed essere dogmatici. Quanto ho detto era un consiglio per te: perché sospetto che i tuoi dubbi, i dubbi di uno che interroga con tanta sollecitudine e angoscia, procedano da un conflitto logorante tra sensibilità e ragione, tra sensi parzialmente illuminati e avidi di luce e un pensiero che vuole prendere tempo, aggirare l’inaggirabile, giocare la volontà – la fede – con le svolte illimitate del confronto dialettico”.
“Non hai torto. Ma sai che velle non discitur, e nel dialogo si cerca di sfregare il proprio intelletto con quello dell’interlocutore finché non sprizzi la scintilla destinata, il principio del fuoco che siamo. Questo credo volesse dire Platone”.
“Forse sì. Allora mettiamola in questi termini: prova a far tacere per un po’ le tue ragioni, e magari la ragione emergerà riposata da un bagno lustrale. Fa’ parlare i tuoi sensi, la tua pura attenzione. So che ti chiedo fiducia: faccio appello alla fiducia che ti ha mosso a interrogarmi”.
“Direi a conversare con te. Sono pronto, comunque. E vedremo”.
“Vedremo, già. Non solo tu: anch’io. Perché non ci sono puri in un mondo d’amore: anche la saggezza è violenta, anzi, la sua violenza è la gloria di un equilibrio vivente, di una pace trasparente che si tinge di un sangue regale anche e soprattutto quando le nostre mani si astengono dal versarne”.

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