Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 13 novembre 2011

Alle porte dell’Areopago


per Andrea Sciffo

“Io non ero tra coloro che ridevano, giudeo”.
“Lo so. Ti ho visto”.
“Che cosa hai visto?”.
“Vuoi dire chi ho visto. Ho visto un uomo assorbito nella meditazione di Dio”.
“Ripeti quello che hai detto sul Dio Ignoto”.
“Colui che adorate senza conoscerlo, io ve lo annuncio”.
“Giudeo, io ho amato le dottrine del divino Platone sin dalla giovinezza. Secondo la nostra scuola ogni cosa è una manifestazione del Bene, dell’Uno, di quel Dio Ignoto che si fa conoscere attraverso il cosmo e nel cosmo. Voi giudei, invece, da quel che so, avete ricevuto un insegnamento del tutto diverso: per voi Dio non si riflette nel mondo, ma l’ha creato. Ho cercato di comprendere questa idea che è espressa oscuramente nelle vostre Scritture, e l’ho intesa più o meno così. Il Dio che voi adorate ha staccato da sé il cosmo con un atto di volontà: perché anche per voi Dio è al di sopra dell’essere e della conoscenza, ma non nel senso dell’Uno di Platone. L’Uno non è accessibile alla conoscenza: non è un oggetto; ma è presente nell’indicibile presenza dell’estasi come l’essenza stessa di colui che esce da sé. Così, al di sopra e al di là di ogni verità, di ogni similitudine, di ogni forma, c’è l’Ignoto che esce da sé e rientra in sé, ed è folle o futile, a seconda che il punto di vista sia etico o teoretico, sforzarsi di dirne o pensare qualcosa, dal momento che non lo possiamo raggiungere, ma solo – nella estrema, altissima, profondissima oscurità – esserlo senza identificarci con esso, o con lui”.
“Proprio questo intendevo, traendo spunto da quell’altare al Dio Ignoto”.
“Ebbene, voi giudei, da quel che posso capire, quando dite che Dio ha creato, che ha voluto il mondo, quando dite che Dio si rivela in una legge, in una parola, in una scrittura, siete d’accordo con noi platonici almeno sul fatto che è al di sopra e al di là dell’essere e del conoscere: però, dal momento che il mondo, dal momento che noi siamo perché siamo stati voluti, per accostarci a lui dobbiamo ricordarci di questa volontà a cui abbiamo acconsentito venendo all’essere, dobbiamo volere quella volontà”.
“È ciò che chiamiamo fede. Non hai parlato male, figlio mio”.
“Perché mi chiami figlio?”.
“Però sei pieno di concetti e intuizioni, avvolto nella tua dialettica come una crisalide nel bozzolo, e barcolli ai margini del sentiero come chi non sa se dorme o veglia. Tu hai detto che Dio, per noi giudei, ha voluto il mondo, ha voluto me, ha voluto te. Non sbagli, ma questa volontà ha un nome. Si chiama amore”.
“Perché dici amore e non brama, eros? Senza contare che sarebbe assai strana anche questa parola. Forse, non essendo di madrelingua greca, fai un po’ di confusione. Amore, agape, è quello di una moglie per il marito, di un fratello per il fratello…”.
“Sì, infatti”.
“E Dio, l’Uno inaccessibile, avrebbe creato per amore? Per amore di chi?”.
“Per amore tuo”.
“Aspetta. Sei davvero sicuro di capire il greco?”.
“Abbastanza per capire quel che ci stiamo dicendo”.
“Allora: Dio fa essere il mondo perché lo ama? Dunque lo ama prima che sia, e al tempo stesso lo ama affinché sia”.
“Sì”.
“Ma l’amore non implica una sorta di eguaglianza, come l’amicizia? Eppure m’era parso che tra il vostro Dio e il mondo ci fosse un salto, una distanza infinita”.
“C’è infatti: come tra essere e non essere. Dio non è qualcuno che esiste e poi ama, Dio è amore: ha voluto che il non essere fosse, e che fosse irrevocabilmente. Ha voluto che il nulla fosse fatto di lui: e che cosa poteva aspettarsi dal nulla? Che cosa poteva chiedere al nulla? Nulla. Questo è l’amore, questo è Dio”.
“Sei molto abile nella tua retorica: queste parole mi ubriacano, come il vino della dialettica, ma senza quel presagio di un approdo sicuro, fosse anche oltre la morte e la vita. Ho assaggiato l’ebbrezza di Platone, ora mi intossica la tua: d’altronde mio padre mi ha chiamato Dionisio, in segno di devozione al dio dell’estasi. Mi sembra che tu stia per portarmi dove nessuno andrebbe, se non vi fosse chiamato con dolcezza e violenza”.
“Con dolcezza e violenza”.
“Sembra qualcosa che debba offendermi fino alla fine”.
“Sembra così”.
“Eppure ritorno subito a me stesso, e mi viene da pensare: questo Paolo, questo giudeo che si fa chiamare il Dappoco, lo Scarso, mi dice che Dio ha amato il nulla, che ha voluto darsi al nulla, e io mi chiedo – qual è la differenza, ma la differenza vera, tra Paolo e Platone? Tra Paolo che mi ubriaca con il suo nulla e il suo amore, e Platone che mi insegna a vedere l’Uno riflesso come in un’acqua profonda? Perché una differenza c’è”.
“Non è una differenza nel senso della tua filosofia: so che vi si discute di genere, di differenza e così via. Questa differenza ha un nome”.
“A tutto ciò ch’io ti dico tu dai un nome!”.
“Non ti ho forse detto che vengo ad annunciarti quello che adori e non sai?”.
“Qual è dunque questo nome? Come si chiama la differenza?”.
“Si chiama Gesù, il Cristo”.
“Ne ho sentito parlare. Ma come posso appendere il mondo a un uomo solo perché tu mi racconti la sua storia?”.
“Per lo stesso motivo per cui Dio ha creato il mondo appendendolo al nulla: è per questo che noi andiamo indietro fino all’inizio, fino alla fede. Lì non c’è un Dio Ignoto, un Bene, un Uno che si irradia nel vuoto, o sullo specchio della sua stessa natura: c’è Qualcuno. Capisci ciò che intendo?”.
“Temo di no”.
“Dio è amore. Prima di ogni cosa, c’è l’amore: quella che tu chiamavi volontà. Per conoscerlo non puoi far altro che amarlo. Per accostarti a quell’inizio, non puoi far altro che credere, cioè essere fedele: e per essere fedele, bisogna che ci sia una parola data. Ma la parola data è di qualcuno, è qualcuno. Non puoi dire: tutto ciò che esiste è un riflesso, una manifestazione dell’Uno; quindi io accederò all’Uno al di là di ogni mia conoscenza. Devi dire: prima del mio principio, c’è la mia fedeltà a qualcuno. Questa fedeltà è la mia pietra di fondamento, l’essere del mio essere. Devo trovare ciò che sono, chi sono: devo trovare quel qualcuno a cui sono stato fedele prima ancora di essere. Dov’è?”
“Non lo so. Dov’è?”.
“Io te l’annuncio”.
“Ma perché dovrebbe essere quell’uomo, giudeo come te, mi sembra?”.
“La domanda non è questa. La domanda è: dov’è quello, quel qualcuno, dov’è colui a cui sono fedele, dov’è colui che mi fonda, colui su cui devo appoggiarmi? Perché per conoscere devi essere conosciuto: devi accettare di esserlo, e non è un’accettazione dell’intelletto, o della ragione. È una fedeltà, un voto, una presa di possesso. Intelletto e ragione le sono sottomessi come il movimento all’arto che lo compie”.
“Ma perché, perché lui?”.
“Chi altri l’ha detto? Chi altri l’ha rivelato? Chi altri lo è stato?”.
“Il fatto che l’abbia detto non è sufficiente. Il fatto che tu lo dica e lo racconti non è sufficiente. Mi stai chiedendo di prestar fede a una storia: può questo cambiarmi la vita?”.
“In quanto hai appena detto c’è tutto il tuo destino: il tuo passato e il tuo futuro. Ascolta la storia. La storia di qualcuno. Qualcuno che ha detto di essere quel qualcuno. Se cerchi prove, cercale nella storia”.
“Ma se io dico di essere Serapide…”.
“Fammelo vedere. Dimostramelo”.
“E Gesù, quell’uomo, come ha dimostrato di essere chi ha detto?”.
“Questa è la sua storia: una dimostrazione condotta non con gli argomenti e i molteplici discorsi, ma con la vita e la morte”.
“Così fanno tutti i saggi”.
“Conosci un saggio che abbia detto: Credi tu che io sono il Figlio di Dio?”.
“In un certo senso è quel che dicono tutti”.
“Il Figlio di Dio è colui che salva il mondo riconducendolo a Dio. Conosci un saggio che l’abbia mai detto?”.
“Forse gli zoroastriani…”.
“L’hanno detto, ma non di se stessi. Chi l’ha detto nell’estasi dell’unione interiore, parlava metaforicamente: non intendeva che avrebbe portato il mondo intero a Dio, in Dio, perché fosse rinnovato, trasformato, reso perfetto nell’amore. Chi l’ha detto da profeta a un popolo, indicava un altro tempo, un altro luogo, un altro uomo: dava parole, non se stesso come parola. E se dava la vita, la dava come uno del popolo, come l’agnello del popolo, come la colonna del popolo, non per farsi mangiare dal mondo intero, fino all’insetto più miserabile, fino all’uomo più disperato. E se insegnava, non insegnava di essere il cardine del tempo e dell’eterno, di essere più di chiunque altro e meno di chiunque altro, il segreto della creazione di Dio e uno schiavo a tiro di schiaffi e di sputi come ciascuno di noi, come il più disgraziato di noi”.
“Io non so più nulla. Più nulla, giudeo. Vedi, Paolo, come torno sempre all’Ignoto, al mio Dio”.
“Torna all’ignoto, e va’ oltre: nel buio più fondo, dove ti sembra esserci nulla. Dio non è ignoto: Dio è amore”.
“E l’amore mi ama e mi conosce prima che io possa volgermi nella sua direzione”.
“Se tu ami, se tu mi ami, il Dio che dicevi di non conoscere è annunciato tra noi, è presente, è il cibo e il respiro che ci scambiamo e in cui viviamo, ci muoviamo e siamo. Se ci amiamo in Gesù, Dio è noto, infinitamente noto: è noto come infinito, ed è nel nostro corpo come pane e vino”.
“Ti prego, vieni da me stasera. Parlando di pane e vino mi hai fatto provare il bisogno e il desiderio di ospitarti”.
“Verrò, e tu capirai, io credo, perché ti ho chiamato figlio mio, e perché sei stato chiamato, alla nascita, Dionisio, in segno di devozione al dio del vino”.
“Va bene, Paolo. Che qualcosa inizi, che qualcosa sia”.
“Non c’è niente che non inizi in qualcuno e da qualcuno, Dionisio, figlio mio”.

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