Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



sabato 10 aprile 2010

Corrispondenza sulla morte/1


Uno degli infiniti modi per definire l’iniziazione è: diventare, attraverso la trasformazione della schiavitù umana in servizio, ciò che si è per diritto di nascita, maestri, quindi padroni, signori. E sulla via per diventare-essere signori, si affina la concezione del destino: non ‘me-la-sono-voluta’, ma ‘così (profondamente) ho voluto’. E la violenza di questo transito è, come la chiama impeccabilmente Eschilo, charis biaios, “grazia violenta” (espressione degna di Giovanni della Croce, di Maddalena de’ Pazzi...). C’è una violenza, una rottura nel fondo dell’essere: chiamala peccato originale, chiamala complessità dell’archè in cui coincidono (ma già sono sul punto di scindersi per la coscienza nascente) gioia e dolore; comunque tutte le tradizioni ci parlano di una frantumazione, di un sacrificio (spesso un autosacrificio), di uno schianto dell’unità multidimensionale – infinita e conchiusa nella sua pace – nel mondo limitato alle tre dimensioni (più o meno, diciamo), o meglio nella percezione tridimensionale del mondo. Ma questa violenza ha a sua volta un carattere multidimensionale, perché è appunto primordiale, principiale: e l’ambiguità della natura, della maya, ha sempre preso sembianze femminili per il pensiero arcaico. Goethe, come chiunque pratichi la bhakti, dice che nell’amore per una donna sperimentiamo proprio questo mistero metafisico, l’accostamento doloroso-gioioso a questa alterità (a questo pathos che è l’esperienza dell’alterità) che è più noi di noi stessi, che ci fa morire una volta e mille volte (perché la vita terrestre è una e molteplice, e il Buddha ricorda che dura quanto un istante, un pensiero, una bolla, un giro di ruota). Insomma, nell’amore per la donna ciascuno o quasi tocca le profondità dell’iniziazione, perché la vita, che è donna, ci corteggia e ci sfugge, ci mette alla prova e ci annoia, ci sorprende e insomma ci mette in cammino, in un continuo mutamento, un continuo pathos che è – parola del vecchio Platone spallelarghe sul tempo – un’immagine in movimento dell’aion, dell’eterno presente infinitamente ricco di vita.
Ti saluto con Seneca, che in un’epistola a Lucilio dice: come nell’utero, pur essendone inconsapevoli, ci prepariamo alla nascita al mondo, così in questa vita, in questo mondo, in alium maturescimus partum (diveniamo maturi per un altro parto). E usa alium, non alterum: cioè un parto diverso, che possiamo intravedere, ma che non possiamo davvero conoscere, qui, nel buio uterino del mondo.

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