Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 23 aprile 2010

Geometrie della forza


Non so cosa farebbero i tibetani, una volta passati dall’altra parte della spada: o meglio, so che i tibetani in quanto entità collettiva, in quanto “noi”, la grande bestia di Platone e Simone Weil, agirebbero più o meno come i loro attuali oppressori. La forza è un incantesimo impersonale, è il sortilegio della quantità, dell’illimitato: per la giustizia è necessario il limite, la forma – è necessaria la necessità (io, tu, una famiglia, una fratria, un villaggio, un paese... Gli imperi, masse senza volto, se non si impongono e non impongono il giogo della forma e della giustizia sono, parola impeccabile di Agostino, magna latrocinia – “enormi associazioni a delinquere”).
La pagina di Tucidide è soprattutto un pezzo di grande teatro tragico, ma privato di canto e di duende, quindi la crudeltà del logos vi fa brillare più lucidi i suoi denti. Sia gli Ateniesi che i Melii sono imbambolati dalla forza. Gli Ateniesi: le cose vanno così in cielo, figuriamoci in terra, per cui regolatevi di conseguenza. I Melii: ma che vi costa osservare una giustizia così facile, così per voi indolore? La brutalità promossa a Weltanschauung (Cina) contro il candore di chi esorta al dialogo (Tibet). Ovviamente i Melii sono dalla parte della ragione – la provvida sventura li ha collocati tra gli oppressi – ma non hanno del tutto ragione: come si fa a dialogare con la bestia? L’illusionismo della potenza è allo zenith: gli Ateniesi dicono quello che non si può dire (come Clitennestra che recita: Io non sono io, sono un demone vendicatore), o meglio, dicono ciò che può essere detto solo da un terzo, da uno spettatore sulla gradinata, non da un attore. Mi ricorda una delle scene epiche più grandi di tutti i tempi, nella Storia segreta dei Mongoli: Jamuqa, che è stato fratello di sangue di Temujin, il futuro Chinggis Khan, diventa suo rivale, è sconfitto, viene trascinato in catene davanti a lui. Il vincitore freme di compassione, non solo gli offre la libertà, ma gli chiede di rinnovare l’antica amicizia. Jamuqa obietta (cito a memoria): “Fra il forte e il debole non può esserci amicizia; io sarò sempre un pidocchio sulla tua veste regale. Uccidimi piuttosto – te ne sarò grato, la vita per me non conta più nulla – e io benedirò la tua ascesa da morto”. (Veramente eccelso).
Dov’è dunque questo sortilegio, che detta agli Ateniesi e a Jamuqa parole terribilmente veggenti e terribilmente inconsapevoli? Gli Ateniesi dicono: la giustizia richiede che entrambi i contendenti siano sotto ise ananke, un’eguale necessità; ma questa è la normale condizione umana! Non solo, in termini buddhisti, urtiamo contro una barca vuota ma, in termini popolari-dostoevskiani, siamo tutti nella stessa barca: siamo tutti solidali nella colpa, solidali in tutto. Hen kai pan. Ciò non libera dall’indignazione (contro gli Ateniesi, figuriamoci contro questi Cinesi), ma libera l’indignazione. Swift diceva: più mi disgustano gli avvocati, i medici, i preti, i politici etc. (categorie, “noi”) e più amo e rispetto questo e quel singolo avvocato, questo e quel singolo medico etc. Proprio così! La nostra ira, quando è libera, è molto saggia.
Nietzsche è stato un buon lettore di Tucidide. Il grande greco vedeva il forte e il debole perpetuamente avvinti in un abbraccio: l’uno limita l’altro, l’uno appartiene all’altro, l’uno ha bisogno dell’altro. Tutti e due sono incantati: “non resta/ che far torto, o patirlo”. Ma anche Adelchi è personaggio tragico, anche lui non può vedere tutta la scena: la dialettica forte-debole, padrone-schiavo, torturatore-torturato, è un equilibrio fatto di continui capovolgimenti; e qualcosa resta sempre, ed è la libertà di Ermengarda in limine mortis, il dolore di Adelchi in limine mortis. Persino chi è nella posizione peggiore, cioè il forte (gli Ateniesi, la Cina), non può non lasciar spazio, tra le fessure dei suoi pietrami disumani, a fiori di consapevolezza perfetta – anzi, forse della consapevolezza più perfetta: un Tucidide, un cantore tragico, uno che ha la spada in pugno e guarda il suo bagliore sinistro.

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