Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 13 ottobre 2013

Convegno alle porte di Jabalqa



Per don Zigi e donna Timeo

L’imperatore cavalcava solitario, senza la sua guardia corrusca e il suo corteggio sontuoso e interminabile, in un boschetto poco fuori le mura della capitale. D’un tratto tirò le redini, con il volto folgorato dallo stupore: un uomo penzolava per un piede dal ramo oscillante di una quercia fronzuta. L’imperatore smontò da cavallo e si avvicinò all’albero, dicendo: “Cosa vi è capitato, brav’uomo?”. Sul viso capovolto si dipinse qualcosa, che poteva essere uno stanco e lucido sorriso oppure una smorfia di dolore: la faccia umana si legge bene solo quando i piedi sono piantati sul suolo. “Vedete, mio signore – rispose – stavo raccogliendo uova da un nido, ma ho messo un piede in fallo, ed ecco, invece di rompermi la brocca sono rimasto impiccato per una caviglia”. “Ora v’aiuto a scendere”. “Signore, lasciatemi qui ancora un poco. Siete mai stato, voi, in così malo arnese?”. “No, ma proprio perché riconoscete voi stesso che non è una buona posizione, mi meraviglio che chiediate di restarci”. “Proverò a spiegarmi. Gli alberi, le lepri, i cavalli, il cielo, le formiche, il fumo, le beccacce, le torri della capitale, visti da qui, hanno un volto assai più caro del consueto. Mi pare di non essere ancor nato, signore, e di presentire soltanto le cose che vedo, che annuso, che odo. Mi capite?”. “Chiederò a quel viandante che scorgo sul sentiero se il matto siete voi, a parlar così, oppure se sono io, che vorrei trarvi subito giù da codesta forca verde e magnifica, pur riuscendomi molto gradito il ragionar con voi del perché e del percome”. “Vi ho udito, maestà”, interloquì il viandante. “Il matto non siete né voi né lui. Se permettete, il matto sono io”. “Oh, se lo dite voi, non ho motivo di dubitarne. Ma temo allora che non riuscirete a sciogliere questa controversia, e tanto meno il nodo che serra il piede del nostro povero amico”. “Mio signore – disse il mezzo impiccato – sentiamo cos’ha da dire il nostro fratello matto. Visto dal mio osservatorio, ha davvero un bellissimo aspetto: una cipria dorata lo ricopre dalla testa ai piedi, i suoi capelli puntano verso il cielo come dita di fiamme, le sue vesti sembrano parlare di paesi lontani e bizzarri, dove altri simboli tramano la vita”. “Mi dispiace di deludervi, brav’uomo, ma il nostro matto, pur essendo davvero, a quel che vedo, una persona degnissima e di gentile aspetto, non è coperto d’oro ma della polvere della strada; i suoi capelli rossi sono ben lieti di restargli in capo, senza volare come scintille in cielo; e le sue vesti, sebbene logore per il lungo cammino, sono quelle delle nostre contrade, quali anche voi portate – perché, per quel che mi riguarda, sono costretto dalla consuetudine e dalla tradizione a indossare abiti in fondo non più regali dei vostri”. “Sentiamo, vi prego, cos’ha da dirci il matto”. “Oh, giusto. Cos’avete da dirci, matto?”. Il viandante sorrise maliziosamente, e disse: “Che si stia con i piedi ben saldi sulla terra oppure appesi in aria, non c’è errore e non c’è verità, perché è sempre lo stesso mondo che si vede. Ma a me pare, fratelli, che ci sia un modo per vedere ciò che non si vede”. L’imperatore non era né più, né meno sorpreso del mezzo impiccato, anche se l’espressione disegnatasi sul viso capovolto sembrava caduta al di sotto dell’umano. Nessuno gli chiese di continuare, ma il matto continuò: “Se vivete da pellegrini, l’impronta che ad ogni istante lasciate sulla polvere è più fuggevole del vento che spinge il gregge delle nubi, più rapinosa del fuoco che le impregna. Se non vi attendete nulla, tutto il mondo viene a dormire sulle vostre ginocchia, e vi mostra l’officina dei suoi sogni. Se non avete nulla da difendere, la pietra su cui poggiate il capo è lo scrigno di tutti i tesori, e sarete poveri come la beatitudine, morti come le stelle, spezzati e perfetti. Tutto qui, mi pare”. “Voi siete davvero matto – osservò l’imperatore – ma le vostre parole mi piacciono molto, e io voglio che diventiamo amici. Voi che ne dite, brav’uomo?”. Il mezzo impiccato annuì, con un gesto che parve particolarmente buffo. “Ma intendete restare lassù o preferite magari condividere la nostra mensa? Avrei giusto tre pagnotte e una bottiglia di vino rosso”. L’uomo si grattò la testa con un certo sforzo, e dopo una lunga attesa silenziosa interrotta di quando in quando da un sonoro brontolìo, finalmente disse: “Signore mio, io sono il vostro umile servo. Ma la sorte mi ha appeso a questo ramo, come sapete, e sarà la sorte a rimettermi sulle gambe. Potete, maestà, e voi, gentilissimo matto, tirar le sorti per il vostro fratello sfortunato e felice?”.     

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