Proust dice, magnificamente,
che i sadici veri, quelli che godono della sofferenza altrui in quanto tale,
sono rarissimi: per lo più si infligge dolore con l’idea di una
giustificazione, di un equilibrio, sentendo o pensando che il patiens se lo meriti. Il principio del kosmos è al fondo della nostra più
ripugnante akosmia: anzi, è proprio
ciò che rende la mixis, la mescolanza
del grano e del loglio, così perfettamente angosciante, così perdutamente
scandalosa. D’altronde, il puro umorismo e il puro orrore nei confronti del
male sfolgorano soprattutto nell’idea religiosa, che gli conferisce e nega
consistenza: nell’idea di Dante, secondo cui l’anima ritorna a ciò che le piace
perché proviene da un creatore che è “lieto”, che è pienezza di beatitudine; e
“s’inganna” correndo dietro ai piaceri creati perché le suggeriscono, nella
Caduta, il piacere buono della Patria abbandonata, il Giardino delle Delizie.
Imbarazzo degli autori di
cartoni animati per bambini: quando demiurgicamente comunicano il soffio
dell’anima a un essere rendendolo amico del personaggio principale, sono
costretti ad escluderlo dalla sua dieta, dal circolo troppo arcaico del sacro e
del sacrificio. Il sentimentalismo moderno getta ogni cosa nell’apeiron, che sottraendo i limiti
annienta la conoscibilità. In epoche religiose gli uomini avrebbero riso del
maiale o del bue, li avrebbero umanizzati pur scannandoli e arrostendoli, ma
con la rituale ilarità che accompagna le cose più gravi, con la nuda
consapevolezza che anche chi ride viene accompagnato ad un altare o può esserlo
in qualunque momento: che se addomestichi l’animale animalizzi l’uomo, supremo
animale sacrificale, bestia tranciata in due dalla spada a doppio taglio del
Logos.
Lo storico Ibn Wāsil riporta
un racconto dell’emiro Ḥusām al-dīn: questi avvicinò il santo re di Francia,
Luigi IX, prigioniero a Manṣūra, ed elogiandolo per le splendide virtù
cavalleresche e la prodigiosa intelligenza gli chiese come mai si fosse risolto
a mettere in pericolo la vita sua e dei suoi uomini attraversando il gran mare
per un’impresa evidentemente disperata. Il recluso eccellente si limitò a
sorridere. L’emiro lo incalzò: nella loro legge chi si imbarcava più volte su
quelle acque per brama di ricchezza o altra incomprensibile passione veniva
ritenuto inadatto a testimoniare in un processo. Luigi chiese perché, e l’uomo
rispose che un simile atteggiamento denota una chiara infermità mentale. Il prigioniero
sorrise ancora, ed esclamò: “Per Dio, bene ha detto chi ha detto così, e non ha
errato chi così ha giudicato”.
Lo Stupor mundi, Federico II, fiero avversario del papa (“il loro
califfo”) e spregiudicatamente filo-islamico in politica, ben noto per il suo
disprezzo di ogni religione positiva, viene ritratto dallo storico Ibn al-Jawzī
mentre, vittorioso a Gerusalemme, compie atti di cortesia verso la popolazione
musulmana: e tuttavia lo scrittore non riesce a contenere un certo disprezzo
quando lo descrive piccolo, di pelo rosso, calvo, miope, tale che al mercato
degli schiavi non lo si sarebbe venduto nemmeno per pochi soldi.
Il rispetto tra nemici
fiorisce in una follia condivisa, che traccia una distanza inequivocabile,
delimita un campo di battaglia che è anche un campo da gioco. Saladino, il
sunnita perfetto, il fanatico ben centrato sul proprio asse interiore,
persecutore di sufi e ismailiti, viene omaggiato dai poeti e dai cavalieri
cristiani. Luigi di Francia, il pazzo cui in un tribunale islamico non si
sarebbe mai concesso di deporre, viene colto dallo storico degli Ayyubidi
mentre un’aura di fulgida sprezzatura regale magnifica l’umiliazione della sua
prigionia.
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