“Cercava sempre
la nutrice, anche se andava già alla scuola di grammatica, fino all’età di otto
anni; le scopriva le tette, bramoso di poppare. Ma una volta la sentì dire:
‘Che disastro, questo bambino!’ e, vergognatosi, se ne astenne” (Porfirio, Vita di Plotino III)
L’amore di Sofia
e l’amore della tetta unum et idem sunt.
Il punto in cui entrambi cominciano a suggere veleno e nevrosi è segnalato dal
sospiro di una nutrice (non della madre): “Che disastro, questo bambino!”. Il puer, allora, sperimenta la ritrosia, il
timore, la castità che ritualizza e benedice l’Esilio, la Caduta. Il flusso di
quel latte tenuemente salato, il turgore sanguigno, ubriacante del capezzolo,
risorgeranno nella sati, nella
contemplazione, nell’indolente fruizione dell’unità, del nous, mammella divina e dunque androgina, come quella del Re del
Cantico dei Cantici.
Oggi i genitori
di Plotino chiamerebbero ansiosi lo psicologo, e ben prima degli otto anni: la
passione tardiva, l’immaturità affettiva sarebbero normalizzate, troncate e
sopite. Nessuno gli direbbe che è un disastro di bambino, anche se magari si
vergognerebbe lo stesso. Ma cercherebbe, poi, nell’istante della morte, suprema
maturità e nascita ultima, di congiungere il divino che è in lui al divino che
è fuori di lui – il latte della nutrice e il bianco nutrimento della sapienza,
l’assillo umano della nevrosi e il pungolo dell’eros celeste?
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