Quello che segue
è il testo della relazione presentata da Daniele Capuano al XIV Seminario
Romano del Convivio (1/3 marzo 2013).
Invano sognerai una vita dopo di te, se non sai
riconoscere la vita intorno a te.
(G. T.
Fechner)
Nella
cultura occidentale, a partire da un momento che è impossibile determinare, in
quanto non appartiene alla storia visibile, è affiorata una crescente tendenza
a pensare e sentire in modo dualistico, binario: da un lato lo spirito,
dall’altro la materia; in alto il divino, l’universale; in basso l’umano, il
particolare: tertium non datur, non si dà una terza possibilità, un
terzo piano dell’essere. Eppure questo terzo, che ha la stessa radice della
parola testimone, è la chiave di volta dell’intero universo spirituale,
la garanzia vivente della sua unità, il nesso che libera lo spirito
dall’astrazione e la materia dall’inerzia. Questo piano mediatore, questo
intermediario o mondo di mezzo, è il mondo dell’anima – è l’anima.
Nei primi
decenni del secolo scorso due grandi pensatori hanno cercato di riportare in
Occidente l’antica visione che fa dell’anima la mediatrice fra spirito e
materia, e dell’immaginazione l’espressione peculiare dell’anima: Carl Gustav
Jung ed Henry Corbin. Eroi di un’unica impresa, avevano in realtà blasoni
nobiliari molto diversi: lo psicologo svizzero veniva dalla clinica, dalla
psichiatria, e dall’incontro decisivo con Freud; l’islamologo francese,
appassionato soprattutto del mondo iranico, veniva da seri studi filosofici e
teologici, da Heidegger e da Gilson. Entrambi intuirono e argomentarono che
escludere l’anima e l’immaginazione dalla spiritualità e dalla cultura vuol
dire negarsi l’accesso ad una comprensione gnostica, ovvero esperienziale,
della religione rivelata e dell’esistenza umana nel mondo: anima e
immaginazione non solo mettono in contatto l’alto e il basso, l’astratto e il
concreto, ma anche le varie tradizioni, le vie distinte e inseparabili che
originano dalla Verità e ad essa riconducono.
Corbin ha
scoperto che nel sufismo iranico, ovvero nella mistica dell’islam persiano, era
centrale, in tutti i sensi possibili, l’idea di ‘ālam al-mithāl,
un’espressione che in mancanza di una terminologia moderna adeguata lo studioso
tradusse con il latino mundus imaginalis. Il mondo immaginale non è un
mondo immaginario, ovvero la dimensione capricciosa e fluttuante delle
fantasticherie, di quella che potremmo chiamare immaginazione passiva: è invece
il mondo reale dell’anima, il mondo dell’immaginazione attiva, quello in cui “hanno
luogo” gli eventi visionari. Corbin sottolinea l’espressione “aver luogo”:
l’anima è il luogo reale, eppure non fisico, non visibile né tangibile, delle
esperienze che ci riferiscono i profeti, i mistici, i santi. Le loro visioni
non sono puramente soggettive, cioè non sono mere allucinazioni o proiezioni di
un soggetto separato e solitario; ma non sono nemmeno puramente oggettive, nel
senso che non possono essere accolte da tutti allo stesso modo, registrate dai
sensi corporei e poi verificate con un procedimento estrinseco, dualistico.
Sono paragonabili alle immagini che si stagliano sulla superficie di uno
specchio, sospese in uno spazio che non può essere misurato con mezzi
materiali, ma nemmeno negato. Infatti, secondo il sufismo, Dio è un tesoro nascosto,
non-manifesto, che desidera essere conosciuto; per essere conosciuto crea
l’universo, ma la creazione divina non ha nulla a che vedere con la costruzione
umana di un oggetto separato. Dio effonde da sé un soffio di nostalgia e di
misericordia, un sospiro d’amore che proietta i suoi molteplici attributi sugli
esseri creati, che sono dunque altrettanti specchi del Volto divino. Quest’atto
d’amore e di conoscenza si chiama tajallī, ovvero manifestazione,
teofania. Ad ogni creatura Dio si manifesta come un angelo, perché Dio in se
stesso è inconoscibile: un angelo è un aspetto, un volto divino che ha bisogno
di un essere creato, di un essere umano, di un ricettacolo per mostrarsi e dare
così compimento alla misericordia del Creatore; così come la creatura ha
bisogno dell’angelo per la propria stessa esistenza, in quanto la creatura non
è altro che un angelo in potenza, un angelo in itinere. La meta del
cammino terrestre di ciascuno è dunque quell’angelo, quel volto di Dio che
appare come in uno specchio: e questo specchio è l’immaginazione, in arabo khayāl,
la facoltà specifica dell’anima, che è dunque sia un piano dell’esistenza
individuale che un piano cosmico e metafisico, un piano dell’essere in senso
soggettivo e oggettivo insieme. Anzi, è proprio attraverso l’immaginazione che
si realizza e comprende il collegamento tra l’uomo come microcosmo e l’universo
come macrocosmo: l’uomo scopre di essere un universo concentrato e condensato
in uno specchio, così come l’universo è un grande Uomo, l’Adamo primordiale, lo
specchio di Dio.
In questa
prospettiva, la vita è opera dell’immaginazione divina: potremmo dire il sogno
di Dio. Ma il sogno dell’uomo, che è misteriosamente prigioniero della propria
egoità ribelle e offuscata, è avvolto da un sonno che misura la sua distanza
dal mondo divino, in cui tutto è unificato: così, come ogni tradizione
spirituale insegna, la morte appare essere la porta del risveglio, il possibile
accesso ad una maggiore pienezza, a una maggiore realtà. Morendo, l’uomo può
congiungersi più intimamente al suo angelo, può diventare angelo: in questo
senso la tomba, secondo l’esegesi mistica islamica, non è che il mondo
immaginale stesso, liberato però dai veli e dai limiti dei sensi corporei.
Torneremo più tardi a questa fondamentale intuizione.
Che cos’è
l’immaginazione? Abbiamo detto l’intermediario, il medium, tra l’invisibile e
il visibile-tangibile, fra il cielo o interiorità e la terra o esteriorità.
Essenzialmente si tratta di una facolta plastica, che dà forma alle
sensazioni: William Blake dice che noi non vediamo con i sensi, ma attraverso i
sensi, simili a finestre o aperture attraverso le quali filtra l’intima luce
dell’anima e dell’immaginazione. Possiamo paragonarla ad una fede profonda,
quasi animale e istintiva, che dà unità alle percezioni, che le sintetizza e le
trasforma in un mondo coerente, dotato di senso. Un altro grande gnostico,
Paracelso, dice che grazie all’immaginazione non abbiamo bisogno di guardare i
nostri arti quando decidiamo di metterli in movimento: in termini moderni
chiameremmo questa facoltà primaria propriocezione, quella capacità
largamente subconsciente di percepire il nostro corpo per così dire
dall’interno e di tradurre le nostre volontà in atti in modo apparentemente
immediato. I neurologi sanno che chi perde questa facoltà in seguito a una
lesione nervosa è costretto a dare ordini alle proprie membra quasi come se si
trattasse di macchine, di strumenti esterni e non di organi. Così pure è noto
che chi riacquista la funzionalità degli occhi dopo un lungo periodo di cecità
può sì percepire macchie colorate, ma non è in grado di cogliere la struttura
degli oggetti, la profondità, i contorni: perché questi sono atti ai quali ci
alleniamo sin dall’infanzia, attraverso facoltà che non sono puramente sensoriali.
Un antico avrebbe visto in tali facoltà una delle forme elementari di
immaginazione. Insomma, l’immaginazione pervade ogni nostra esperienza del
mondo: ma il più delle volte noi la interpretiamo come un prodotto delle
percezioni sensoriali, mentre la meditazione e la pratica spirituale ci
insegnano che è qualcosa di originario, non di derivato. Qualcosa di creativo,
come l’anima a cui appartiene.
C’è
un’idea, non astratta ma vissuta, verificata, intimamente gustata, che accomuna
tutte le tradizioni esoteriche, tutti i cammini gnostici, quelli lungo i quali
le religioni come fatto collettivo, sociale, positivo, hanno sempre cercato di
diventare esperienza dell’individuo, iniziazione, individuazione nel senso più
alto, psicologico e spirituale. Si tratta dell’idea secondo cui, nel corso
della vita terrestre, l’uomo plasma con la propria immaginazione una sorta di
veicolo dell’anima, un corpo spirituale, costituito da una materia
autentica ma sottile, inafferrabile ai sensi corporei che la morte fisica
dissolverà, ma percepibile da sensi diversi, da una visione che ha il suo
centro nel cuore. Lo scienziato e mistico tedesco del XIX secolo G. T. Fechner
ha paragonato il periodo della gestazione a quello dell’esistenza terrestre:
come nella prima il feto, radicato nel corpo materno, si plasma un corpo che
utilizzerà solo dopo la nascita, così nella seconda l’essere umano, avvolto
dall’atmosfera terrestre come da un grembo, si forgia un corpo di aspirazioni,
desideri e azioni che non può percepire con i sensi rivolti all’esterno, al
mondo fisico, ma di cui diverrà pienamente cosciente al momento della morte.
Con la morte lasciamo il nostro corpo visibile e tangibile alla decomposizione,
alla terra, ma il nostro corpo spirituale, il corpo plasmato dall’immaginazione
e dalla fede, dall’amore e dalle idee, diventerà il nostro vero corpo: secondo
la parola di Fechner, noi ci risveglieremo al nostro corpo autentico.
I sufi
iranici studiati da Corbin ci offrono un insegnamento molto simile: quando noi
diciamo che con la morte del corpo l’anima accede all’aldilà, ci esprimiamo
correttamente, ma dobbiamo leggere questa affermazione in modo spirituale, fare
quello che nell’islam si chiama ta’wīl, ovvero interpretarla
riconducendola al suo senso primo, in cui non c’è separazione tra materia e
spirito, tra corpo e anima. Morendo, noi ci risvegliamo al nostro vero volto,
all’immagine che abbiamo plasmato durante la vita terrestre nel nostro rapporto
con l’angelo, dunque con Dio: se ci siamo conformati ai lineamenti che abbiamo
intravisto nello specchio della nostra immaginazione, diventiamo una cosa sola
con l’angelo, diveniamo corpi spirituali e spiriti corporei, siamo nel Paradiso
promesso dai profeti; se invece non abbiamo seguito questo cammino di
individuazione, questo pellegrinaggio d’amore e di conoscenza, entriamo
comunque nel mondo dell’anima, e dunque in un mondo di materia sottile, non
puramente astratto; ma il fallimento della nostra ricerca si manifesta nella
forma di un demonio, di una realtà infernale e distruttiva.
Qui
occorre accettare una premessa molto lontana dalla nostra mentalità
razionalistica e, appunto, dualistica. Secondo i sufi iranici, il mondo
dell’anima, ovvero il mondo dell’immaginazione e degli angeli (che sono una
cosa sola), è il luogo del mondo materiale, e non viceversa: è l’anima che
plasma e contiene il corpo, anche se durante l’esistenza terrena ci appare
l’esatto contrario, perché siamo come capovolti, imprigionati nelle passioni
egoiche, passivamente incatenati ai limiti dello spazio a tre dimensioni e del
tempo tripartito e irreversibile. Ma attraverso la porta della morte, passiamo
dal sonno al risveglio, dall’illusione alla verità: nell’aldilà, ovvero nel
mondo che è il vero volto di questo mondo terrestre, la manifestazione di ciò
che durante la vita rimane nascosto ai sensi grossolani, l’anima si rivela per
ciò che è, una potenza creatrice e attiva. Così ciò che vede e sente nel suo
nuovo stato non è altro che l’espressione immediata e perfetta della sua
interiorità, dei suoi autentici desideri, della sua fede e della sua
conoscenza: il mondo dei morti, che sono i viventi liberi dalla illusoria
prospettiva dello spazio-tempo terrestre, è per ciascuna anima la libera
creazione della sua immaginazione attiva, l’affermazione sensibile e spirituale
della sua volontà più profonda. Così ogni anima è avvolta dal suo paradiso o
dal suo inferno, che sono il suo stesso corpo sottile, tessuto come una veste
nel corso della vita: e dunque paradiso e inferno sono apparenze, nel senso che
sono legate all’esperienza del singolo individuo, ma sono reali nel senso che
manifestano realmente la sua essenza, la sua personalità spirituale. Corbin
utilizza un’espressione che è comune sia ai sufi che a un grande mistico
cristiano, Swedenborg: parla cioè di “apparenze reali”, di un’esperienza in cui
è abolito il dualismo tra apparenza e realtà.
Non è un
caso che Henry Corbin abbia studiato così attentamente gli scritti visionari di
Swedenborg e quelli di altri mistici cristiani, accostandoli alle opere dei maestri
musulmani. Anche nella gnosi cristiana questi temi trovano uno sviluppo
fiorente, e anche in questo caso porgono una chiave di lettura per tradurre le
promesse della Rivelazione profetica in esperienze integrali, totali, in un
itinerario iniziatico che supera ogni mortificante dualismo, ogni astratta
opposizione tra lettera e spirito dei testi. Il mistico svedese insegna che
l’essenza divina infinita e incomprensibile si è manifestata, in principio,
nella forma di un Uomo universale, l’Adam Qadmon della qabbalah, il cui corpo è
costituito dagli angeli: si tratta dunque di una manifestazione al tempo stesso
una e molteplice, come un volto riflesso in uno specchio. Tali angeli non sono
però puri spiriti nel senso ordinario del termine, ma uomini che hanno vissuto
l’esistenza terrestre per poi accedere alla dimensione spirituale o celeste.
Secondo Swedenborg, le cui dottrine sono in perfetto accordo con la gnosi di
ogni epoca e di ogni cultura religiosa, fra il cielo e la terra esiste una rete
capillare di corrispondenze simboliche: come nella lettura del testo sacro, ad
ogni evento terrestre corrisponde un senso interiore nel mondo celeste, e ogni
aspetto della dimensione spirituale e celeste si riflette in una realtà
terrestre, visibile e tangibile. Il nesso vivente fra i due piani della
totalità è costituito dall’amore e dalla fede: ciascun uomo vivente sulla terra
è in diretto contatto con il cielo e con gli angeli attraverso la qualità del
proprio desiderio e della propria conoscenza. La morte non è altro che la
manifestazione piena e priva di impedimenti dell’esperienza interiore maturata
nello spazio e nel tempo del mondo materiale: tuttavia, proprio perché la
corrispondenza fra cielo e terra è totale, tale manifestazione non implicherà
alcuna negazione della materia e delle sue condizioni, lo spazio e il tempo.
Avverrà un rivolgimento che somiglia molto al passaggio attraverso uno
specchio: lo spazio e il tempo del mondo spirituale e celeste saranno
l’espressione spontanea e immediata degli stati dell’anima; anzi, il mondo
stesso dell’anima, il suo cielo o il suo inferno, sarà l’apparizione, la
rivelazione della sua vita profonda, della sua vera natura. L’anima vedrà,
udrà, annuserà, gusterà, avrà un corpo, una casa, avrà rapporti con altre
anime, ovvero con altri angeli, o demoni: si risveglierà ad una dimensione
visibile e tangibile come quella terrestre, ma non più caratterizzata
dall’opposizione tra materia e spirito, dallo spessore e dall’ostacolo dei
sensi fisici e caduchi, ma da una materialità spirituale, che è il frutto
finale e compiuto dell’immaginazione attiva esercitata durante l’esistenza
mortale.
Sulla base di questi insegnamenti, possiamo dire che
ogni pratica spirituale, ogni forma di meditazione e di contemplazione, è un
modo per aiutarci a morire prima di morire: un tentativo di renderci
consapevoli di ciò che comunque accade, di farci diventare ciò che siamo; di
creare insieme a Dio creatore, di essere co-creatori. Tutte le tradizioni,
infatti, rivelano che lo Spirito divino non si manifesta se non attraverso la
veste delle immagini, e dunque dell’immaginazione, che è il corpo dell’anima.
Questo corpo sottile viene plasmato dall’immaginazione durante la vita, ed è il
veicolo (ochema, carro, lo chiamano i platonici) che conduce l’anima alla
sua patria celeste, ovvero al suo archetipo spirituale, a quello che per i sufi
persiani è il suo angelo. Plutarco dice che per i greci antichi lo spirito, il nous,
proveniva dal sole, l’anima, la psyche, dalla luna, e il corpo, o soma,
dalla terra. Alla morte il corpo ritorna alla terra, ma l’anima, che fa da
mediatrice, da trait-d’-union fra cielo e terra, fra spirito e materia,
con il suo veicolo luminoso si innalza verso la porta della luna. Di lì lo spirito potrà prendere il volo e
ritornare al sole, al mondo celeste. Così esistono due morti, che corrispondono
alla posizione mediana e duplice dell’anima: dopo la prima morte psyche
attraversa una fase transitoria, di passaggio (quella che Swedenborg chiama
“mondo degli spiriti”), per poi sperimentare la seconda o definitiva, che può
segnare la risalita del nous alla sua patria solare (il “mondo celeste”
di Swedenborg). Chi non ha contemplato nello specchio dell’immaginazione il
riflesso del proprio volto spirituale (paragonabile al riflesso del sole sulla
faccia bianca della luna) non avrà un veicolo, un corpo sottile adeguato per il
suo viaggio ultraterreno: se invece lo ha plasmato con la meditazione e con
l’amore, la morte seconda non gli farà male, dice san Francesco nel Cantico
delle creature.
Dottrine straordinariamente affini ricorrono, in una
forma ancora più radicale, nelle tradizioni dell’Estremo Oriente, in
particolare nel buddhismo tantrico tibetano. Il Bardo thödöl, il
cosiddetto “Libro tibetano dei morti”, è una raccolta di istruzioni da
sussurrare a un moribondo, o a una persona appena morta, all’interno di un
rituale che propizia il suo accesso alla liberazione definitiva, il nirvana,
o almeno a forme di esistenza spiritualmente più avanzate. Il bardo è
appunto una condizione transitoria fra la morte o lo spegnimento del corpo
grossolano e una sorta di “seconda morte” oltre la quale c’è la piena
realizzazione, oppure l’ingresso in mondi paradisiaci o infernali, o
eventualmente, se l’individuo ha bisogno di ulteriore purificazione, in un’altra
nascita terrestre, umana o non umana. Questa condizione intermedia non è altro
che un percorso iniziatico in cui si manifestano gli stati mentali sviluppati
dal defunto durante la sua esistenza terrestre: ad ognuno di essi corrisponde
un’esperienza visionaria, terrificante o beatificante, che sulle prime la
coscienza ormai libera dal corpo fisico percepisce come eventi esterni,
concreti, da fuggire come una minaccia per la sua integrità o da abbracciare
come una promessa di sicurezza e felicità. Le formule del libro mirano però a
ricordargli l’essenza del dharma che ha praticato nel corso di tutta la
vita: quelle figure divine o demoniache, quei paesaggi allettanti o disgustosi,
sono appunto proiettati dalla chiarezza originaria della sua coscienza, dalla
sua natura-di-Buddha, proprio come l’intero universo; non fanno che esprimere
il karma accumulato con le azioni interiori ed esteriori. Una volta che
ci si è risvegliati alla loro vera natura, li si riassorbe in sé, li si
contempla come un semplice riflesso in uno specchio. Il fine della pratica
buddhista, il nirvana, non è del tutto sovrapponibile a quello delle
tradizioni occidentali, e in ogni caso non è questo il luogo per individuare
convergenze e divergenze: tuttavia, in entrambi i casi, si ammette che il
paradiso e l’inferno, i mondi della beatitudine e della punizione, sono la
manifestazione dell’interiorità e dell’immaginazione dell’individuo; e anche
nel Bardo thödöl non vengono contrapposti e separati in modo
razionalistico e astratto il corpo e l’anima, perché ogni esperienza visionaria
ha il suo corpo, da quello grossolano della ordinaria percezione terrestre ai
vari corpi luminosi, trasparenti e divini che il meditante ha imparato a
proiettare e contemplare con la fantasia e la fede già durante la propria vita
mortale.
Dopo questa rapida e necessariamente manchevole
esplorazione, siamo forse in grado di accostarci al detto di un maestro
iraniano del XIX secolo, appartenente alla scuola Shaykhī: “Il corpo del
credente fedele è la terra del suo paradiso”. Il paradiso è il corpo del
credente, l’inferno il corpo del miscredente, del peccatore. Uno degli ostacoli
alla retta comprensione di questa dottrina è indubbiamente la nostra concezione
del corpo, dominata da quel razionalismo e da quel dualismo che la gnosi ci
insegna invece a trascendere. Quando ad esempio Platone, e con lui tutta una
cultura filosofica, definisce la morte “separazione dell’anima dal corpo”,
dobbiamo stare attenti a non fermarci ad un approccio letterale, facendo di
“anima” e “corpo” due cose o sostanze separate. La morte è invece proprio
l’occasione per liberarsi dal letteralismo, perché scioglie o può sciogliere
dall’identificazione con l’ego, che durante la vita ci rinchiude in una bolla
di coscienza, esiliandoci dalla totalità. Ma che cos’è il corpo? Il
grande mistico cristiano Jakob Boehme, che in molti punti della sua opera
trasmette fedelmente l’insegnamento gnostico universale, afferma che ogni
realtà e ogni piano dell’essere ha una sua corporeità, è dotato di corpo: Dio
stesso ha un corpo, anzi, il corpo di Dio è il luogo di tutti gli altri, come
Dio è il luogo che abbraccia e contiene la creazione. Il corpo divino è la sua
Sofia, la sua sapienza, che Boehme chiama anche “dimora” e “inabitazione” di
Dio, traducendo l’ebraico Shekhinah: ora, Sofia è la manifestazione stessa di
Dio, è velo e rivelazione insieme, illusione e verità. Sofia è l’immagine e
l’immaginazione di Dio, perché Dio si manifesta facendosi immagine, immaginando
sé come mondo. È ciò che la tradizione indiana chiama māyā: arte e
artificio della creazione, matrice di ogni forma e velo che ci nasconde e
manifesta la Realtà Suprema.
Dunque la nostra immaginazione, il nostro corpo
sottile, il veicolo della nostra anima, partecipa di un’immaginazione più
vasta, quella universale, che è il riflesso di quella divina nello specchio
della natura. Poiché il mundus imaginalis, il mondo degli angeli e
dell’anima di cui parlano i sufi iranici, è intermedio fra cielo e terra, fra
l’invisibile spirito e la materia estesa e impenetrabile, anche le sue leggi si
collocano su questa frontiera, sull’istmo che congiunge e distingue alto e
basso, divino e umano. Come abbiamo intravisto in Swedenborg, nell’aldilà, nel
mondo dell’anima, spazio e tempo esistono ancora, ma sono diversi da quelli
terrestri. Ne cogliamo qualcosa, un accenno, una primizia, non solo nella
meditazione, ma anche nell’arte, che è una delle espressioni più alte
dell’immaginazione umana. Soprattutto nell’arte tradizionale dell’icona
cristiana bizantina e della miniatura persiana: contemplandole, infatti, ci
rendiamo conto facilmente che non si limitano a riprodurre il mondo così come
viene percepito dai sensi, ma costruiscono uno spazio multidimensionale, uno
spazio in cui non c’è un solo punto di fuga, come nella prospettiva lineare
dell’arte naturalistica, ma quasi ogni oggetto ha la sua prospettiva, e i
colori brillano di luce propria, senza chiaroscuro. Lo spazio dell’icona e
della miniatura persiana è l’espressione artistica dello spazio dell’anima, lo
spazio di cui parla Swedenborg quando dice che in cielo gli angeli non si
muovono di luogo in luogo, ma da uno stato interiore all’altro, e ogni stato è
un riflesso dell’altro, come in una sala di specchi. Allo stesso modo, il tempo
del mondo immaginale riecheggia nella musica: non è né l’eternità divina,
l’istante immutabile che i greci chiamavano aion, né il tempo cosmico
tripartito e irreversibile, misurato dagli astri, che chiamavano chronos;
è invece un tempo unitario e interiore, che gli antichi chiamavano aidiotes
o aevum, un tempo in cui non ci percepiamo più come frammenti smarriti
in un universo illimitato e in una eternità senza inizio e senza fine, ma in
comunicazione immediata, attraverso la memoria del cuore, con tutti i tempi e
tutti gli esseri.
Abbiamo imparato dai sufi che la vita umana è un
rapporto d’amore e di conoscenza con l’angelo, con il nostro angelo, ovvero con
il volto che Dio ci mostra, con l’immagine di Dio in noi. Conversando con
l’angelo, noi vediamo il nostro stesso volto originario in uno specchio: in tal
modo comprendiamo, con il cuore, “luogo” sottile dell’immaginazione e della
fede, che l’alterità del mondo ha appunto un volto; che la domanda da
porre non è “che cosa?”, ma “chi?”. Il paradosso della via mistica è solo
apparente: quanto più rinunciamo all’ego, alla chiusura in noi stessi, durante
la vita, tanto più ci individuiamo nel nostro angelo, nella nostra immagine
divina; e non sperimenteremo dunque la morte come mera distruzione, ovvero come
mera alterità, ma come una semplificazione, come una maggiore presenza, come un
ritorno in patria. Se invece ci abbarbichiamo all’ego, se ci identifichiamo con
il nostro frammento, tanto più l’esperienza che faremo nella morte, ovvero
l’accesso allo spazio-tempo immaginale non più velato dai sensi grossolani, ci
coglierà come dall’esterno, disperderà e disgregherà la nostra apparente unità
esistenziale. In un caso vivremo il paradiso, nell’altro l’inferno. La Bibbia
usa per il primo le immagini dell’albero radicato in un suolo ricco d’acque,
per il secondo le immagini della pula che il vento soffia via, dell’erba
precoce che il sole dell’estate dissecca prima che porti frutto.
Il messaggio spirituale che possiamo trarre dalle
varie tradizioni è il seguente. L’aldilà non è un altro mondo, ma è il senso
nascosto, la struttura nascosta del mondo in cui viviamo: l’universo è il libro
sacro di Dio, e sotto il velo del significato letterale, di ciò che cogliamo
con i sensi grossolani aiutati dalla ragione, c’è una lettura più profonda, la
lettura simbolica, il tessuto delle corrispondenze. Così il mondo dell’anima,
che le si rivela al momento della morte fisica, è la manifestazione creativa
del suo stesso cuore, della sua fede e del suo amore, ed è sensibile e
spirituale al tempo stesso: è il suo corpo, il suo mondo. Un mondo distinto da
quelli delle altre anime, ma anche coesteso ad essi, tutt’uno con essi, come in
una comunità perfetta: le immagini della vita celeste sono quelle della danza,
o di un fiore come la candida rosa di Dante, o di un giardino (paradiso
viene dal persiano pairidaeza, che significa appunto giardino
recintato). Immagini di unità che si dispiega come i petali di una rosa intorno
al suo centro radiante, come gli alberi e le piante che traggono la loro vita
da un’unica terra e condividono lo stesso spazio e lo stesso tempo profondo,
interiore.
Abbiamo citato in precedenza un grande scienziato e
mistico tedesco, Fechner. In quanto studioso dei fenomeni della natura, e
dunque ben allenato ad utilizzare sia la ragione che l’esperienza sensibile,
Fechner sapeva bene, come del resto ogni uomo pensante, che il grande dilemma
di fronte alla morte e all’aldilà è quello dello spegnersi della coscienza
cerebrale. Tuttavia, egli dice, se piantiamo nella nostra immaginazione
l’analogia fra la vita dell’uomo sulla terra e quella del feto nell’utero
materno, riusciamo forse ad intuire qualcosa di quello che comunque rimane un
mistero. Quando nasciamo al mondo terrestre, noi sperimentiamo una vera e
propria morte: perdiamo il radicamento nel corpo materno, perdiamo ogni memoria
di quella vita segreta, oceanica, fluttuante; ma viviamo in una sfera più
ampia, in un contesto di relazioni, per le quali ci serviamo proprio del corpo
che abbiamo plasmato con nostra madre nel periodo della gestazione (Fechner si
esprime in questo modo perché è consapevole che ciascuna anima tesse il proprio
corpo, come insegna Platone rifacendosi alle dottrine orfiche). Allo stesso
modo, quando moriamo, quando perdiamo il radicamento nel nostro corpo
individuale, separato, in realtà al contempo nasciamo ad un mondo più vasto: il
nostro corpo più piccolo si addormenta e si risveglia un corpo più grande, che
abbiamo iniziato a plasmare durante la nostra vita con i nostri pensieri, i
nostri affetti, i nostri desideri più veri. Come si diceva, la nostra domanda,
il nostro dubbio è legato al venir meno della coscienza cerebrale: ma questo
dubbio è a sua volta dovuto all’abitudine di ridurre la nostra coscienza a ciò
che durante la vita terrestre si colloca al di sopra della sua soglia, in
superficie. Così, ad esempio, tendiamo a negare qualsiasi forma di coscienza a
tutto ciò che per noi è al di sotto di quella soglia, a tutto ciò che ci sembra
‘solo materiale’, come le piante. Ma se impariamo a pensare a un corpo e a
un’anima più vasti, totali, unitari e molteplici insieme, ovvero all’Anima
Mundi e al Cosmo come essere animato che conoscevano gli antichi, la
prospettiva cambia: l’individualità umana non è più chiusa in se stessa e nel
cervello, ma è angelo in potenza, e dunque potenzialmente in
comunicazione con tutto, è una sintesi dell’universo. In tal modo la nostra
coscienza diventa meta-forica, dal greco meta-pherein,
trasferire: si trasferisce alle cose, e le cose le restituiscono, le rimandano
lei stessa, il suo volto. Iniziamo così a comprendere, in modo sperimentale ed
intimo, con il cuore, che non è il corpo a contenere l’anima, ma è l’anima, il
mondo dell’anima, il mondo immaginale, ad essere il luogo dell’universo
visibile. Questo cambiamento o piuttosto capovolgimento di prospettiva è una
vera metanoia, una vera conversione: ed è una vera morte prima della
morte, cioè un’iniziazione: la nostra vita diventa simbolica, un tessuto di
corrispondenze, una liturgia, una preparazione alla vita angelica e celeste.
Una volta abbattuto il muro, lo spessore dell’ego, il
nostro vero volto, la nostra persona, ci guarda da miriadi di specchi,
dai volti di tutti gli esseri dell’universo: quell’universo che è un unico
essere, un Uomo, come l’Adam Qadmon della qabbalah, l’Insān al-kāmil dei sufi o
il Cristo totale e cosmico della mistica cristiana. Le membra di un unico
corpo, di un unico essere, non possono che partecipare della sua vita in modo
intero, senza fratture: come l’anima non si separa in ciascuno degli organi, ma
è tutta in tutto, così la nostra anima, nel disegno nascosto delle cose a cui
la morte ci introdurrà, è tutta in tutto e in tutti, non una parte o un
frammento ma un’immagine di Dio.
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