Si
suol dire che la povertà, paupertas, è la mancanza del superfluo e la miseria
la mancanza del necessario. Ma queste definizioni hanno almeno due svantaggi:
qualificano la povertà, che è una realtà umana complessa, in modo
solamente negativo, e non tengono conto di alcune fondamentali verità
psicologiche e morali. Anzitutto, la distinzione tra superfluo e necessario:
poiché l’abitudine è una seconda natura, la vita civile ha fatto sorgere
necessità che tali non sono, se misurate sul metro stoico del victus et
amictus, e che comunque lo diventano, se l’uomo non vive di solo pane, ma di
quella buona nomea o aura di rispettabilità sociale che è tutt’uno con la
sicurezza. Un uomo che cada al di sotto di una certa soglia di rispettabilità e
accettabilità – mera vanità, puri nomi, fantasie affastellate nel tempo,
sedimenti di convenzioni – perde quel prestigio, quella protezione magica che
lo preserva, non tanto dalla violenza brutale e impersonale della folla, quanto
dall’indifferenza e dall’invisibilità che Simone Weil vede da sempre
accompagnare la sventura.
Secondo
Giovenale la somma durezza della povertà è che rende ridicoli. Non è certo il
riso della fraternità: il più delle volte è un riso implicito, una
ridicolaggine pesantemente camuffata dal sentimentalismo e dal silenzio. Ciò
che è ridicolo, che ha perso accettabilità sociale, aura sociale, suscita effimeri
moti sentimentali o è inghiottito dall’immenso oceano del silenzio, maestoso e
infecondo. Non si tratta però di un silenzio in cui è possibile costruirsi una
tenda di libertà: questo era l’ideale della povertà volontaria, religiosa o
filosofica, che la presente idolatria delle merci e dei servizi rende pressoché
impossibile. La civiltà della sicurezza e dell’angoscia, la civiltà dell’air-bag,
semplicemente nega il misero: ne frena la caduta con mille tutele meschine, l’assistenza
indecente, l’umiliante burocrazia del Welfare, il restringimento continuo,
inesorabile, degli spazi di autodeterminazione; oppure, se la caduta nonostante
tutto avviene, e il povero diviene una figura pittoresca, un mendicante, uno
spostato, un senzatetto, allora la sua riduzione a ‘problema’, e dunque la sua
spersonalizzazione e deumanizzazione, raggiunge il pieno compimento. La
sterilizzazione, non nell’antiquata accezione dell’eugenetica ma in modo assai
più sottile, spirituale, è perfetta: quel poco disagio che il nuovo ‘barbone’
susciterà nei singoli passanti non avrà nemmeno il calore ingannevole del
sentimentalismo, sarà la goccia di lubrificante in grado di assicurare il
funzionamento ininterrotto della macchina.
Il
capitalismo si potrebbe definire, in modo un po’ arbitrario e limitato ma con
qualche ragione, un sistema che mira a rendere impossibile la povertà
dignitosa: e dunque la dignità tout-court, perché se non può essere
dignitoso il povero, non può esserlo certo il ricco. Che questa immane congiura
contro la dignità sia di fatto una congiura contro l’anima non è ovvio come
dovrebbe, dal momento che parlare di anima suona oggi sentimentale e falso. Se
dicessi che è una congiura contro il piacere susciterei qualche interesse, ma
soprattutto molta perplessità, perché oggi il piacere è la ruota infernale del
consumo.
Ricordiamoci,
dice Chesterton, che il povero è un uomo con poco denaro, non uno strano
animale come vuol farci credere la sociologia, l’ingegneria sociale, l’ideologia.
Sì, ma è come dire: ricordiamoci che lo sventurato è un uomo a cui è capitata
una sventura. La sventura è tale in quanto segna l’uomo, in quanto si impone
come necessità o addirittura magico, travolgente imperio. Se si giustificano
gli orrori sociali, come la schiavitù – lo dice sempre Chesterton –
considerandoli mali inevitabili, è perché il padrone e lo schiavo finiscono per
condividere, per spartire la stessa mancanza di libertà: la stessa abitudine
che soffoca il dolore invece di curarlo. Il povero è lo sventurato dell’era dei
consumi: può ingegnarsi a sfuggire alle catene, come lo schiavo dotato, ma è un
miracolo se non gliene restano per sempre i segni sul collo, sui polsi, sulle
caviglie. E sono segni che si incidono anche nell’anima e nel corpo del
consumatore ‘normale’ o benestante o ricco, perché mai modo di vita è stato più
sistematico, totalitario, capillare, onnipervasivo e onnisuggestivo.
Chesterton:
di solito non si ribella lo schiavo, chi è abituato all’oppressione, ma il
piccolo proprietario vessato, il contadino o l’artigiano insultato e
impoverito, il piccolo borghese vivace economicamente e intellettualmente. Si
ribella Oliver Twist, l’innocente che, nell’ergastolo moderno della workhouse,
chiede ‘più cibo’. Si ribella chi resta sorpreso per il torto, perché ha una
visione del fine, del bene, del Paradiso.
Quando
un uomo economicamente o psichicamente depresso parla agli amici, vorrebbe
coinvolgerli nella sua angoscia, nel suo senso di radicale insicurezza, e
riportare sempre la conversazione alle cose fondamentali dell’esistenza: il
pane, la famiglia, la casa, il bene. Da amico dovrebbe cercare di farlo con
buonumore fraterno, senza sentirsi minacciato da chi ama. Ma il più delle volte
anche le persone migliori, se pure non tacciono di quegli argomenti in quanto
indecorosi, assumono un atteggiamento alquanto accondiscendente, come se
stessero parlando a un bambino, a un selvaggio, a un essere regredito –
impoverito, appunto. Tale è l’ombra che la sventura proietta sulle più care e
libere alleanze di un uomo.
Si
dice: pancia piena non conosce digiuno. Ma anche il digiuno si dimentica presto
della pancia piena. Il punto è che l’io dimentica: l’io è oblio. La memoria è
saggia ed efficace quando umilia e rende trasparenti. E la memoria saggia è la
memoria spirituale.
I
consigli non suonano quasi mai fraterni a un depresso. Non li vede procedere
dalla viva esperienza, condivisa come pane, ma anzi dall’inconscia e dunque
ancor più avvilente esigenza di allontanare l’altro, di apporre alla sua
sfortuna o disgrazia il marchio del demerito – se non osserva ciò a cui lo
esortiamo. “Nelle condizioni in cui sei dovresti anche accettare un posto da
sguattero”: chi lo dice sembra immancabilmente uno che non lo farebbe mai.
Le
torture peggiori vengono dalle esclamazioni sentimentali degli amici distratti.
“Come avete fatto ad andare avanti così!”. Esprimono ammirazione, ma un’ammirazione
non fraterna è quasi un’accusa. “Io al posto vostro mi sarei suicidato”, è il
sottinteso, che non può certo rallegrare un amico: non più di quanto rallegri
un condannato a morte la meraviglia, da circo romano, che gli spettatori
esprimono con sussurri e interiezioni, di fronte alla sua capacità di
sopportare i colpi del boia.
Lamentarsi
è indecente. Un povero che si lamenta non si è abituato al fato economico, ma
si è abituato, così sente il fortunato, alla propria condizione di minorità.
Gli si presta l’attenzione del tutto impersonale e insultante che si concede al
‘fiotto’ dello zingaro sul marciapiede.
Il
cinismo è il sale della miseria, dice Cioran. Molte cose condiscono la miseria,
a dire il vero: l’umanità sembra conoscere questa pietanza inspida da parecchi eoni. La nostra
è forse l’unica epoca in cui la miseria è il corrispettivo pressoché perfetto –
e non più solo l’analogia – della depressione grave, della malattia iniziatica:
una crisi a cui segue l’annientamento o la liberazione spirituale. Ma l’analogia
consentiva lo spazio per respirare, lo spazio della libertà, in cui fioriva la
povertà volontaria nelle sue molteplici declinazioni: l’identificazione
completa (corrispettivo è ancora una parola debole e intellettualmente falsa)
aumenta insieme l’angoscia e l’impotenza. La miseria è oggi la vera crisi
sciamanica, a cui tutti, proprio per questo, finiscono per fare il callo come
se fosse, non il mezzo crimine che credevano i borghesi, ma una diffusa
interdipendenza della colpa in un sistema di malati cronici e di indebitati
euforici o depressi. È uno dei tratti di questa epoca estremistica: il misero
non può che diventare un liberato-in-vita, il credente non può che essere un
mistico, il rivoluzionario non può che essere un santo.
“Ad
un colloquio di lavoro ti prenderanno in considerazione solo se avrai l’aria di
chi ambisce con entusiasmo a quel posto”. Beh, certo: a chi ha sarà dato; ha fede solo
chi sente un po’ di terra sotto i piedi, chi pregusta la fruizione definitiva.
D’altronde, nell’era della pubblicità, occorre farsi pubblicità ad ogni passo:
fare scena, come si suol dire. E fin qui ci siamo: è l’antica pasta umana
modellata nei contemporanei stampi industriali. Ma continuo a non capire cosa c’entri,
con la sempiterna simulazione dello schiavo, l’umiliazione supplementare di
dare per scontato che il tutto miri alla stipulazione di un contratto – questo
antiquato rituale perfettamente borghese.
Come ogni parola
antica, povero indica una qualità; e nell’era senza qualità, in realtà i
poveri non esistono. Infatti il povero ha oggi soprattutto paura di esistere,
di entrare in uno status, di avere la specifica riconoscibilità dell’invisibile;
di essere l’unico uomo con la divisa in un mondo di travestiti dagli stracci
marchiati dell’industria, in un immane accampamento di candala
semiappagati. La paura del povero è quella di un lebbroso che non ha un tugurio
in cui recludersi, un mantellaccio sotto cui nascondersi, sonagli da agitare e
ciotola da ostendere: è la paura di non avere un rituale per la propria
condizione rituale, in un tempo in cui vi sono solo rituali inconsci per negare
e non per delimitare. Il povero è il relitto infetto di un passato schernito:
come le virtù difficili dell’epoca precedente sopravvivono nei manicomi e nelle
carceri, oppresse dalle catene di un mero stigma, così la semplice umanità del
povero sopravvive oggi come sopravvivono l’insicurezza, la malattia e la psiche
– con la smorfia dell’informe e dell’illimitato sul volto che è una fame
irriconosciuta e spregiata di forma.
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