Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 21 aprile 2010

Anima mundi


“Perciò bisogna attenersi a ciò che è comune-collettivo (xynôi). Ma, sebbene il logos sia comune-collettivo, la gran massa degli uomini vivono come se avessero un’esperienza privata (idian... phronesin)”.
Questo grande pensiero di Eraclito rimane per me bronzeo e distante, se non lo rileggo insieme a grandi terapeuti del mio secolo come Hillman, Corbin e, insisto, Wittgenstein. Il logos, il linguaggio del mondo è ovviamente il logos dell’anima, il logos di psyché: il discorso delle immagini, cui non si attaglia tanto la spiegazione causale, deterministica, quanto la descrizione sinottica, lo sguardo d’insieme – morfologico, fenomenologico. Al posto delle cause, iniziamo a scorgere intrecci di condizioni, di compresenze e sincronismi. E per educarci a questo sguardo, dobbiamo o possiamo recuperare ciò che la mente cartesiana e imperialistica relega tra le ombre, le aberrazioni, le malattie infantili dell’umanità: l’animismo, la magia che, cogliendo l’anima delle cose nelle cose, vi coglie anche il pathos, la patologizzazione inerente all’anima mundi e non solo segregata nella stanza imbottita dell’io solitario e orgoglioso. Se leggiamo i canti di depressione sciamanici, ma anche i salmi babilonesi e davidici, siamo addirittura sconvolti e oppressi da questa animazione perturbante di ambienti, eventi e cose, che accetteremmo più volentieri nelle paranoiche lettere dal manicomio di Artaud, nei deliri dell’alienato di strada affidati al vento (in effetti, alla comunità) o ai muri piatti, vuoti e inquietanti delle periferie.
Ricordo uno stupendo passo di un filosofo cinese dell’XI secolo, Shao Yung: “L’abilità del saggio di sintetizzare le circostanze relative alle diecimila cose consiste nella facoltà dell’osservazione capovolta. Con l’espressione ‘osservazione capovolta’ non intendo l’osservazione delle cose attraverso l’io, bensì l’osservazione delle cose attraverso le cose stesse. (...) In tal modo si acquista la facoltà di usare gli occhi del mondo come se fossero i propri...”. Mi riporta a Corbin e a Hillman, alla loro idea di presenza, di auto-ostensione delle cose, a quella loro riscoperta di un terzo mondo tra materia e spirito, il mondo del corpo sottile, che potrebbe liberarci dalla mitologia moderna del mondo come materia morta, come segno privo di vita su cui la mente soggettiva imprime dei significati parimenti soggettivi. Non è facile, perché di questa mitologia siamo ancora, quasi tutti, impregnati, e poiché il logos è collettivo, disincantarsi in privato è un eroismo insensato e suicida.
A proposito di suicidio, penso che Leopardi abbia individuato perfettamente la potenza autodistruttiva della ‘ragione’ moderna, la qualità del suicidio moderno. Non che il suicida di oggi sia necessariamente un ‘suicidato dalla ragione’: la maggior parte di queste morti oscure, col loro rituale che sempre ci provoca e interpella, sono parenti dei suicidi accadici, greci, romani, tungusi – parenti vicini o lontani, non so. Ma è giustissimo sottolineare il legame tra la festa moderna e il suicidio moderno: e non è un legame da poco, è la noia, la noia leopardiana-schopenhaueriana, il vuoto che la mente egoica-solitaria ha aperto tra sé e il mondo, l’incapacità di rito e quindi di festa nel senso antico, che è un senso per noi troppo ricco – il sacro, per noi, è troppo ricco e/o troppo semplice, primitivo, la sua prossimità all’arché ci rende goffi, penosi, inconsci. Ci sentiamo chiamati alla festa, alla sua ritualità, al suo conciliare vecchio e nuovo, senex et puer, ma avvertiamo, per lo più senza potercelo confessare, di brancolare tra frammenti, rovine – la ‘lucida nevrosi’ del sacro divenuta oscura nevrosi che ci sembra impossibile o assurdo trarre fuori dalla nostra pelle, dalla camera di torture sadiane dell’ego occidentale. Ed è così con tutto, perché tutto è uno: facciamo finta di mangiare il pane e di bere il vino dei nostri avi, frutto del lavoro di uomini, e non riusciamo a confessarci che oggi mettiamo in tavola dei golem industriali; proviamo a convincerci di abitare case, ma la depressione e l’ansia dovrebbero indicarci che sono pensate, e il più delle volte vissute, come garage in cui la macchina-uomo si parcheggia durante la notte (Ivan Illich); mangiamo il pollo e il vitello, ma non osiamo dirci che quelle carni stinte non vengono da un sacrificio o dalla già triste macelleria profana dei nostri nonni e bisnonni, bensì dalle Auschwitz, raramente benedette da pensieri alla Adorno o versi alla Celan, in cui si mozzano becchi, si simulano giornate di poche ore e si praticano torture ben calcolate. Ecco, m’accorgo d’essere stato afferrato da archetipi diversi eppur reciprocamente risonanti mentre scrivevo, da musiche che ho seguito con fede, come un tarantolato: dall’apprezzamento afroditico, delicato e pericoloso, di tutte le cose, allo sguardo saturnino verso il passato-arché, alla marzialità polemica e quasi apocalittica di chi sente l’Occidente come un tramonto perpetuo.
Se vuoi continuare, amico, sono pronto a ballare su altre arie.

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