Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 14 aprile 2010

Corrispondenza sulla morte/5


Martedì sono state celebrate le esequie di M.; il giorno dopo, mercoledì, una mia amica ha messo al mondo un bambino, F. Ebbene, io non credo che la nascita di F. sia meno incomprensibile del suicidio di M.; non credo che la gioia un tantino impersonale, spontanea e recitata al tempo stesso, che ha salutato quella nascita, sia meno strana, folle ed eccessiva dell’assenso di quell’uomo al richiamo, distante e familiare, del fiume che gli scorreva sotto casa. Né del promettersi a una donna, che è un’altra morte, in un certo senso un altro suicidio.
Quando si parla di ‘immagine’, come fanno Jung e Hillman, il rischio è quello di confonderla con un tipo particolare di rappresentazione o con un duplicato visivo o fantasma (immagine di...). Hillman scrive molto giustamente, nel 1978: “le immagini non significano niente”, e Casey osserva che l’immagine non è ciò che si vede, ma il modo in cui si vede. Se la parola ‘immagine’ ci porta fuori strada, possiamo dire ‘rito’. “In principio era l’azione”, dice il Faust di Goethe. In principio era l’azione rituale.
L’anima è una metafora. L’anima è immaginazione. Noi immaginiamo un’immagine, piuttosto che vederla. Secondo Lao-tzu, il saggio trascura l’occhio e si prende cura del ventre: l’Occhio è il massimo stregone. La suggestione è immaginare l’immagine duplicandola: ma l’immagine non significa niente, è primaria, è un archetipo. Se la duplichiamo, degradiamo il simbolo alla sua versione razionalizzata, l’allegoria. Ma l’immagine non significa: l’immagine mostra. “Mostra che cosa?” Mostra sé! “Come, un riflessivo?” Forse, allora, il mondo è un riflesso – ma non di qualcosa!
Non mi risulta che Hillman abbia mai citato seriamente Wittgenstein, ma penso che, dopo Nietzsche, l’austriaco e l’americano siano stati i più coraggiosi distruttori del soggettivismo, della psicologia mentalistico-soggettivistica: il primo con la sua dialettica socratico-apollinea, l’altro con la sua retorica ermetico-dionisiaca.
Possiamo recuperare il vecchio termine schopenhaueriano, ‘rappresentazione’, solo se lo specifichiamo, come fai giustissimamente tu, con l’aggettivo ‘teatrale’: l’immagine è rito, è teatro.
L’anima è caduta – ma non al passato prossimo: è (copula) caduta (aggettivo o, meglio, sostantivo: Caduta). Il suo rapporto con la necessità (ananke), cioè con la morte, è originario, essenziale. Le anime fiutano in direzione di Hades, dice Eraclito. L’Hades, dice Platone, è l’Invisibile (aeides), la prospettiva in cui l’occhio cede all’udito e all’odorato. Perfetta espressione popolare di ananke: “oramai siamo in ballo, e allora balliamo”. Ci siamo dentro. Bravissimo anche Chesterton (più epico-etico): chi viene al mondo non può avere l’occhio critico di un uomo che stia cercando una casa e a cui venga mostrata una serie di appartamenti; “nessun uomo è in questa posizione: l’uomo appartiene al mondo già prima che possa iniziare a chiedersi se sia piacevole o no l’appartenervi... Per dire in breve quel che sembra essenziale, c’è in lui una fedeltà che precede l’ammirazione... Il mondo non è una casa d’affitto a Brighton che si debba lasciare perché è miserabile; è il castello di famiglia, con la bandiera sventolante sul torrione, e più è miserabile e meno dobbiamo abbandonarlo”.
L’anima ‘patologizza’ perché, come dice stupendamente Eraclito (con un aforisma che annienta ogni soggettivismo), “le anime vivono la nostra morte, e noi siamo morti alla loro vita”. L’anima vive la morte dell’io: l’anima vive la morte. Gli fa eco, in modo quasi altrettanto regale, Antonio Maria Zaccaria: “Come il corpo muore se lungamente starà senza il suo nutrimento, così l’anima muore se lungamente starà senza la meditazione della morte...”.
Ci sono molti suicidi, e quindi molte fantasie di suicidio. Il suicidio può essere l’atmosfera quotidiana di un’esistenza, uno sfondo sublime, una possibilità che innalza la fiamma del tragico, un ricatto agli dei e agli uomini, un tentativo di iniziazione che mette alla prova il mondo, l’essere, una possessione che arriva come il precipitato improvviso di una lunga nigredo lasciata a se stessa. Insomma, è colorato di tutte le sfumature infere dell’anima, di tutte le peripezie mitiche dell’anima: è essenziale al destino dell’anima – chi non ha mai pensato al suicidio? Quello che tu dici, alludendo ad una sorta di vipassana nel cuore della fantasia suicidaria, è verissimo, ma lasciami aggiungere qualcosa: il suicidio è l’aporia suprema dell’immaginazione, la dimostrazione per assurdo, la consequentia mirabilis del mondo immaginale; metterlo in atto lo vanifica: letteralmente, la lettera lo uccide. Uccidersi uccide la fantasia di uccidersi. Scusami, ma mi viene ancora in mente quel solennissimo buontempone di Chesterton, quando dice di aver scritto un trattato Sui venti modi di uccidere la propria moglie; ma sconsiglia il lettore di metterne in pratica anche uno solo, se non altro perché si priverebbe dell’indiscutibile piacere di realizzare gli altri diciannove. A me viene molto da ridere, anche se non ho mai pensato di uccidere la mia; il fatto è che ho avuto per anni la passione, non solo intellettuale, del suicidio: non so in che mondo sia entrato M. prima di consegnarsi alle ombre, né (quindi) dopo, ma so che la fantasia del suicidio è quella che accosta più pericolosamente da vicino alla fede immaginale, al timore-devozione per le immagini. Perché in tutte le tradizioni la devozione è, anzitutto, timore.
Ricordi Giacobbe allo Yabboq? Forse ad Hillman sembrerebbe una manifestazione del paradigma eroico, ma a me pare una buona introduzione al paradigma ermetico (quello della psicologia archetipica, insomma). Yaaqov è lo Spodestatore, l’io: migrando di notte, lascia che gli passino davanti tutte le persone e le bestie e le cose della carovana, poi guada il fiume da solo. Allora lo aggredisce un “uomo”, l’ombra del suo spodestare, del suo cercare potenza: come un ladro, come un vampiro succhiasangue, come una larva del mondo dei morti. Giacobbe lotta con lui: cioè gli resiste, standogli avvinghiato. A cosa resiste? Alla possessione. Perché quell’uomo, lui ancora non lo sa, è Dio. E lo ferisce alla coscia, lasciandolo storpio per sempre. All’alba l’Uomo tenebroso gli dice di lasciarlo andare – come Dracula, o il fantasma del padre di Amleto. E Giacobbe: Non ti lascerò se non mi avrai benedetto. La radice di benedire per i semiti non ha niente a che vedere né col dire né col bene: b-r-k, piegarsi, inginocchiarsi. Giacobbe, insomma, vuole ancora vincere, come al solito, seguendo il suo sogno di potenza? No. Giacobbe vuole essere distinto dall’ombra ed eternamente a lei legato – come un lottatore. L’ombra gli chiede il nome e gliene dà uno nuovo, Yisrael, “perché hai lottato con gli dei e con gli uomini e sei uscito vittorioso”. Eroismo? Poi ovviamente Giacobbe chiede reciprocità: e il tuo, di nome? “‘Perché mi chiedi il nome?’ E lì lo benedisse”. Quella domanda distanziante è la benedizione. Il sole spunta, Giacobbe zoppica, e chiama quel luogo Fanuel, “perché Dio mi si è mostrato faccia a faccia eppure la mia vita è salva”. Giacobbe il prediletto, l’astuto, scopre il proprio destino di adoratore, di devoto dell’immagine, rifiutando di lasciarsene possedere. (Il che non vuol dire che la possessione di uno sciamano o di un estatico yoruba sia contraria alla devozione verso le immagini! È solo un’altra immagine, o meglio un altro modo di vedere, un altro rito).
Pensare M., ricordare M. (con la preghiera, con l’attenzione), credo sia giusto ed efficace: è forse l’unico modo per deletteralizzare l’atto suicida, quell’estrema espressione dell’individuazione, della solitudine apparente di essere se stessi. C’è un senso in cui si è soli nella propria ananke, nel proprio destino, eppure la nostra solitudine stessa non è privata, è universale, archetipica: non siamo isolati neanche nella solitudine, perché “invitati oppure no, gli dei saranno presenti”. Questa non è una consolazione, è congiungere gli opposti, essere d’accordo con la necessità (anankei synchorein, dicevano gli stoici).

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