Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



domenica 11 aprile 2010

Corrispondenza sulla morte/2


Amare l’ordine del mondo è morte e liberazione. Cosa c’è di più crocifiggente? Ma al tempo stesso, cosa c’è di più alleviante e lieve? Pensa agli ultimi ‘capitoli’ del libro di Giobbe: al terribile Dio che mostra al suo principesco prescelto, a quel bersaglio di maledizioni funeste e ancor più funeste menzogne, un tessuto di verità da cui l’uomo – l’io – è assente (ma più profondamente presente come testimone umiliato e pacificato). E la visione culmina su quei due mostri fantastici, il Behemot (lett. “gli animali”), simbolo della quieta potenza della natura, e il Leviathan, simbolo della sua qualità inquietante, minacciosa (“Puoi forse catturare il Leviatano e farci giocare le tue figlie?” – come a dire: puoi forse possedere la natura con la tua conoscenza-tecnica e metterla a disposizione delle potenze dell’anima asservite all’io?). Dopo, il vecchio idumeo si mette la mano sulla bocca, come un iniziato, e lascia agli uomini quella sua stupenda dichiarazione di moksha raggiunta: “Ti conoscevo per sentito dire (attraverso cenni giunti al mio orecchio, auscultandoti con la ragione, con la fedeltà alla tradizione, con una fede ancora legata alla parola data, una fede ancora troppo ingenuamente fiduciosa), ma ora i miei occhi ti hanno veduto”... Ricordi il passaggio dalla terza alla quarta dimensione? Prima seguiamo la traccia del tempo come se fosse indipendente dalle cose, poi intuiamo (per la maggioranza è solo questo, ma alcuni, Giobbe, i mistici, i santi, diventano tutto occhio) che tutto è uno, che spazio e tempo e tutte le determinazioni sono conflati insieme, per dirla con Dante – e Einstein. Questo transito è una morte. Ma il dolore, la morte di Giobbe non vanno letteralizzati: o meglio, non vanno anticipati con l’immaginazione. La morte non possiamo anticiparla, proprio perché è la porta della realtà, il superamento dell’immaginazione (in senso weiliano): la morte che vivremo e viviamo ci appartiene, la prepariamo noi, eppure ci sorprende sempre, l’io non può non restare sorpreso, l’idolo non può non subire una rottura, una distruzione.

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