Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



lunedì 12 aprile 2010

Corrispondenza sulla morte/3


Vengo periodicamente (circa ogni quattro anni, ho notato, ma osservazioni future potrebbero smentirmi) visitato da infinite settimane d’insonnia quando incontro un’immagine che mi parla dell’archè in modo intollerabile (ad esempio, la foto del supplizio cinese venerata e studiata da Bataille): notti come d’infanzia, di terrore che costringe a tenere gli occhi sbarrati, a guardare le inesauribili formazioni d’anima che dalla tenebra emergono dubbiosamente per poi venirne riassorbite – ma non senza aver lasciato impronte più o meno consapevoli nel cuore squassato dai palpiti. La tua esperienza è evidentemente più vicina al panico in senso classico, la mia è una paura più mediata, anche se l’evento-immagine determinato che la occasiona è subito promosso a simbolo di qualcosa di universale. L’angelo con cui lotto in quei periodi, sul guado notturno che separa-congiunge sogno e veglia, Ade e terra, si chiama Inaccettabilità: “Oh, se QUESTO è possibile, se questo è stato ed è, allora il mondo riposa su qualcosa di inaccettabile” (c’è un passo incredibile ne L’immortale di Borges che dà voce con l’esattezza della grande arte a questa mia percezione).
Quando lessi le parole consegnate a Silvano dell’Athos (“Mantieni il tuo spirito agli inferi, e non disperare”), mi sentii direttamente interpellato – come te, come qualunque senziente, credo. Scrissi anche qualcosa su di lui, ma il punto è che quell’istruzione divina suona notevolmente efficace perché riunisce i contrari di botto, un istante infinitesimo prima che le Simplegadi si richiudano. E l’unità dei contrari è la Via: inferno – ma non disperazione (e quel ‘non’ attraversa gli strati della coscienza come una deletteralizzazione di una disperazione reale, una sorta di quintessenza della disperazione); senza distogliersi e senza afferrare etc. etc.
Ricordo una storia chassidica, minima e infinitamente meditabile. Un povero devoto va dal Rebbe, è scosso da tremiti, percorso da sudori freddi. Gli dice: “Rebbe, io ho una gran paura – lo vedi – di pregare nell’assemblea”. Il Rebbe gli sorride, gli poggia la destra su una spalla e gli fa: “Beh... Abbi paura – e prega!”. È insipida, e ha il sapore della libertà.

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