Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



martedì 20 aprile 2010

Fede: un punto di vista tragico-ermetico


La fede è la Shekhinah, è la reciprocità tra Dio e uomo, tra rabb e marbūb (=il Respiro della Misericordia): senza di essa non si può attingere la gnosi divinizzante, la resurrezione. C’è nella fede un momento ineliminabile di oscurità, di non-conoscenza che è caparra nell’anima della non-conoscenza mistica: il momento dello tzimtzum umano, del ritrarsi nel timore che è principio di sapienza, il radicamento come ciò che è il sommamente semplice (il popolo, lo spessore tradizionale, il retaggio) e il sommamente profondo, esoterico (nesso presente nel Daodejjing).
Nella rivelazione profetica un evento, un’azione, un ordine carico di senso e portata simbolica ma che eccede ogni spiegazione e motivazione viene proposto all’anima comunitaria come una potenza schiacciante e interrogante, qualcosa che è sia fuori che dentro, causa di timore, di un coinvolgimento che è insieme coazione e assenso o meglio qualcosa di ulteriore rispetto a ognuna di queste diadi (spunto svolto in Lévinas). L’atto fondatore della profezia come capovolgimento-fondazione della prospettiva sapienziale: “non farti sapiente attraverso i tuoi occhi”, sii sapiente attraverso l’ascolto totale del timore, dell’assenso profondo, rituale, attivo.
La fede stessa apre lo spazio della ragione come ri-appropriazione del fondamento della fede, dell’oggetto della fede. Fede e ragione, dialettica inestinguibile, che addita la resurrezione, la pienezza unimolteplice.
“Chi crede in me...”. L’io di Gesù come testa, caput, anticipo dell’io gnostico dell’uomo che crede in lui: chi crede nel Me di Dio, dell’uomo-Dio. Ma ha diritto di saperlo solo chi concede l’assenso, chi accede all’evento fondatore. La fede come angelo mediatore, custode e ostacolo, guardiano kafkiano, donna portatrice di sapienza. “Io credo, aiuta la mia incredulità”: l’assenso apre, fonda il territorio dell’umano fragile, ragionante, al tempo stesso lo pone e lo medica, lo assume.
La tensione ineliminabile tra riappropriazione della tradizione che ci costituisce (il Levin tolstojano) e strappo profetico, esodo, metanoia: non posso non dirmi cristiano, non posso dirmi cristiano. L’aspetto eversivo dello strappo è il segno che la vera meta del cammino umano è la pienezza, sempre ulteriore (anche se non assolutamente ulteriore – il che sarebbe del resto impensabile).
Io non posso non dirmi radicato sulla, nella mia tradizione, e al tempo stesso non posso dire, onestamente, di aver incontrato il suo fondamento, il suo Fondatore. Ma posso dire che il mio cammino non è separato dal suo: la mia distanza da lui non è estranea alla sua distanza dalla propria tradizione – in cui sono di nuovo e anzi paradigmaticamente compresenti il radicamento e l’esodo. Gesù vero ebreo, ma anche fondatore di un nuovo mondo: Abramo vero harraniano, Mosè vero egizio, ogni inizio invera e nega l’apparente passato, la tradizione. Il cristiano prolunga Cristo, è aperto nella rivoluzione permanente alla pienezza promessa. Ma la crisi del tempo cristiano prolunga a sua volta la dialettica fondante e fondamentale: apocalissi del suo verbo e suo nascondimento, kenosi in cui il Dio di Gesù (il Dio che Gesù incarna) muore sia nel senso cristiano che nel senso nicciano; crisi che è cristiana nel senso originario, come Gesù era ebreo.
L’uomo, pianta imperfetta, sacerdote-paria. Radicato, errante. La sua povertà come possibilità angosciante di pienezza divina – l’uomo come interlocutore profetico del divino, come colui che non può vivere ed esistere se non in virtù di questa tensione, di questo spazio aperto che è il suo logos. La fede è l’immaginazione creatrice, è il velo della Maya creatrice: ignoranza più sapiente di qualunque sapienza. Ignoranza che crea la sapienza, oscuro timore da cui albeggia la luce della gnosi-resurrezione. La tragedia è nel mezzo di questa mediazione, è l’arte e il rituale del tempo di krisis.

Rapporto sempre dialettico (dualismo che addita un tertium ulteriore) fra tradizione (radicamento) e fede come immaginazione animale, profetica, esodo abramico. La fede come mediazione mercuriale fra saggezza del sangue e sapienza del Pleroma, della resurrezione. Più s’allarga nell’organismo della cultura la ferita del logos, più la fede si fa problematica, e la riappropriazione di Levin deve vincere demoni strani, come la relatività, la percezione sempre più acuta della molteplicità, del decomporsi dell’oggettività nel mercurio della volontà creatrice ma debole, che sempre più inclina al dualismo sentimento illusorio/verità annichilente.
L’anima religiosa deve decostruire in sé (operazione culturale e non meramente soggettiva) il tribunale, recuperare il senso del destino, una sorta di sguardo fenomenologico, ferito e debole ma senza l’appoggio, la giustificazione che gli presta il cosiddetto ‘pensiero debole’. “Tale è il mio paesaggio interiore: così posso e debbo descriverlo”. Rispettare l’anima vuol dire anche rispettare questa decomposizione dell’anima comune.

Nessun commento:

Posta un commento