Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



giovedì 22 aprile 2010

Lottando con una zanzara durante una seduta di meditazione


Una culex pipiens come lo Sconosciuto al guado dello Yabboq.
Aggredisce soprattutto di notte, come il piano infero dell’anima, ha bisogno di sangue, è ladra (“Sei forse un ladro?”, chiede Giacobbe all’Uomo nel midrash), attraversa l’aria tenebrosa con uno strombettio continuo, penetrante, sottilmente allarmante. All’inizio l’aggressione induce l’aggredito a rispondere solo letteralmente, a reagire in modo simmetrico, speculare: “Ti schiaccio, ti elimino, intruso, invasore, errore dell’universo”. È la suggestione propria della prosbolè, come i Padri cristiani chiamano il primo movimento della tentazione: l’avvicinamento, il contrarre la distanza. La trombetta della culex, come la presa dell’Uomo nel racconto biblico, restringe lo spazio della mente e del cuore attizzando l’impulso all’uccisione: perché se è vero che all’origine di questo impulso c’è una delle passioni primarie, la difesa-paura, non è meno vero che nell’“istinto dell’avversione”, nel thymòs, c’è una passione omicida o comunque un pathos dell’uccidere, dello spegnere, del rimuovere dalla luce comune.
Se non che, nel cuore della stretta, del vincolo che è forse il segreto di ogni aggressione (da Eraclito a Nietzsche), traluce un volto impensato di quell’impulso: è ancora notte, ma la costanza nel difendersi non coincide più con la contrazione del cuore, o meglio, cuore e mente sono im-pegnati (vincolati) nella passione, ma il corpo che sente il corpo dell’avversario e risponde istante dopo istante apre la consapevolezza ad una scoperta erotica. “Non m’importa che l’aggressore se ne vada, m’importa che mi benedica!”. È sì una brama di vincerlo, ma soprattutto un riconoscimento della sua divinità, del suo essere: è divino come l’ospite, più dell’ospite perché il volto dell’aggressore è più tenebroso, più velato, più iniziatico. Anche tu, culex, non te ne andrai finché non mi avrai benedetto! Finché non mi avrai rivelato il mio nome profetico, il mio nome immaginale, iniziatico, quello che devo ascoltare e leggere nel guado notturno, nella lotta tenebrosa: il nome di uno che lotta con una zanzara perché la zanzara lo benedica, lo sollevi dalla solitudine troppo umana di essere un Giacobbe, Ya‛aqov, un usurpatore, uno sradicato, un io separato dalla notte in cui gli insetti, gli sconosciuti, succhiano il caldo e intimo sangue.
(Nota dell’Io: Quanto ribrezzo, infatti, mi viene ancora dal volto e dal corpo degl’insetti, specialmente nelle fotografie, nelle immagini! Forse perché manifestano un aspetto – panìm, volto – assai profondo del Divino: la mistica ebraica paragona En Sof, l’Infinito, rivestito dai suoi attributi o sefirot, alla cavalletta, il cui vestito è parte del suo corpo).

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