Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 12 maggio 2010

Breve commento ad alcuni versi del Canto notturno di Leopardi


“Nasce l’uomo a fatica,
Ed è rischio di morte il nascimento.
Prova pena e tormento
Per prima cosa; e in sul principio stesso
La madre e il genitore
Il prende a consolar dell’esser nato.
Poi che crescendo viene,
L’uno e l’altro il sostiene, e via pur sempre
Con atti e con parole
Studiasi fargli core,
E consolarlo dell’umano stato:
Altro ufficio più grato
Non si fa da parenti alla lor prole.
Ma perché dare al sole,
Perché reggere in vita
Chi poi di quella consolar convenga?
Se la vita è sventura,
Perché da noi si dura?”

A fatica: lo ‛etzev della maledizione di Eva (partorirai be-etzev, faticosamente, laboriosamente) – la vita perde la spontaneità/facilità angelico-divina, la caduta nel tempo è sforzo, frizione tra i contrari, lotta del daimon sulla frontiera dell’oblio. La nascita, la natura-nascitura emerge ora come rischio di morte, nascita alla morte. Il primo sentimento del mondo è “pena e tormento”: è sentimento del vuoto-caduta, del nulla. La prima risposta d’amore dei genitori, officianti il rito della nascita, è consolarci d’esser nati. Consolazione ricca di senso, se e perché padre e madre partecipano alla nascita-morte del figlio. Il “fare core” al nuovo uomo è proprio da intendersi come uno sforzo (“studiasi”) di coltivare il cuore-coraggio del figlio-fratello, il sentimento coraggioso come apprezzamento dell’iniziazione mondana, del destino mortale-immortale.
Qui è il punto. La domanda del pastore-poeta è la stessa del neonato, del bambino: il pianto furibondo dell’infante è lamento inconsolabile, il lamento di Rachele in Rama; nella sua profondità carnale e immaginale è il fulcro dell’iniziazione. La domanda del poeta e del neonato è: perché l’iniziazione? Ma il perché dell’iniziazione – è l’iniziazione. Il mondo non è necessario, e nemmeno casuale. Non è che non ci sia risposta, o che la risposta coincida con la domanda: il farsi della risposta è nell’oscurità della domanda, perché il mondo è continuamente creato, continuamente fatto – oppure, detto non o meno abramicamente, è manifestazione, gioco, scaturisce, fiorisce, ostende sé. Noi rispondiamo a questa domanda domandandola come rito, gesto, destino – tragedia. Pathei mathos: apprendimento nel patimento, nell’esser-mutati. Leopardi, moderno, resta al di qua della soglia oscura e petrosa: ma il pastore-poeta officia proprio quel rito, portando la parola-canto e la parola-pensiero quasi al massimo possibile di tensione e sottile-straziante paradosso. Più parla chiaro e razionale, più arde notturna la fiamma sonora della profonda, della dolorosa/giubilante archè.

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