Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



giovedì 20 maggio 2010

Lettere a Mardekucek: Sulla casa


Caro Mardekucek,

ti scrivo dalla mia casa. Già questo inizio – questa sorta di inizio – mi getta in una disperazione speculativa: perché cos’altro è una casa se non una tenda per nomadi, un frammento di spazio che permette – che può permettere – di abbracciare tutto lo spazio, e insomma un’ironia ben poco animale, un’ironia molto, molto umana?
Tempo fa progettai un raccontino su un manicheo (di Gerasa, che trovata décadent) che decide di sposarsi. Un manicheo vero, eh, un credente e filosofo manicheo del quarto secolo – e che decide di sposarsi sul serio, eh, mica trascinato dalle pulegge del samsara, dalle morbide e imperiose suggestioni di skotos. Va bene, va bene, c’è dell’autobiografia, Mard, mi sembra già di sentirti: dell’autobiografia scoperta, poco elegante – e quindi tanto poco manichea... Te lo concedo: anzi, direi di più e di peggio – un gioco di riflessi ben poco spirituale, quasi uno sfogo in mezzo al traffico, una pausa di lavoro dominata dall’ansia di essere pausa. Sì, quel geraseno potrei essere io: un intellettuale, che ha anche un bisogno di devozione quasi lancinante, e lascia che il suo logos solitario e spezzato lo torturi per non vederlo e non sentirlo nemmeno, silenziosamente felice che la luce torni alla luce senza che la tenebra possa afferrarla; la sua sensibilità è indubbiamente dualistica, ma non si tratta solo di costituzione psichica, è il suo daimon, il suo destino a chiamarlo sempre di nuovo su quella frontiera, dove poche anime rischiara il crepuscolo del mito gnostico, con la sua giustizia ambigua. Eppure proprio quella sensibilità lo muove, non meno, semmai più energicamente, alle nozze: e non alle nozze spirituali dell’esoterismo valentiniano e manicheo – ché da quelle invece lo allontana una strana timidezza di vertigine, quella sì davvero complicata e quasi diabolica – ma alle nozze di carne anima e spirito con una donna da lui incontrata nel più comune e dolce e simpatico dei modi. Le nozze, il matrimonio. Un desiderio di totalità e superamento, che il buon credente psichico giudicherebbe una specie di folle arrière pensée e il contemplativo pneumatico un capolavoro di tortuosità ordito da Hyle, spinge il mio fidanzato manicheo ad usare il proprio intelletto per inedite e ardite interpretazioni. Sulle prime gli viene da dipingere il matrimonio – questo matrimonio, questo irripetibile esperimento nuziale – come la possibilità più alta, il tentativo di portare la solitudine ineffabile della luce nella ferialità delle leggi cosmiche, nella loro presunta regolarità, nella loro ironicissima norma. Ma si rende conto abbastanza presto che è un tipico arabesco mentale da neofita, da catecumeno del destino: pensieri e parole non esprimono altro che la loro (tutto sommato divertita e divertente, oltreché profondamente giusta) distanza dalla piena verità dell’esperienza. E allora ha un’idea ancor più strana: che l’accettazione del kosmos e delle sue ottusità, ripetizioni e fin troppo esibite (per esser tali) fissazioni – proprio l’accettazione che gli gnostici deprecano nella Comunità degli psichici, nell’Ecclesia del mondo – nasconda un qualche segreto la cui enorme semplicità imbarazza gli intelletti e le anime di tutte le creature, specialmente degli uomini, specialmente dei dotti, specialmente degli gnostici. Ed è una semplicità che esime il geraseno perfino dal rinunciare alla gelosa sensibilità manichea: perché è pur vero che, nella grande Chiesa costituita dai piccoli del mondo, il sonno e l’ignoranza sono l’ambiente normale e quasi il liquido amniotico, ma a motivo di quella semplicità e in rapporto ad essa, non in un contrasto che chiunque potrebbe comprendere – anche uno gnostico, per dire. E se da quel sonno debba fiorire un’alba, se in quell’utero stia fluttuando qualcuno, non è dato – per nostra tragica ventura, per nostra mirabile avventura – sapere.
Ti saluto, dalla mia casa, dalla fucina del mio mutamento, dalla stanchezza prodigiosa della mia ventura.

Daniele

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