Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



venerdì 21 maggio 2010

Lettere a Mardekucek: Sull’amore


Caro Mardekucek,

ti parlo, poco volentieri, dell’amore.
Non ti starò a raccontare quello che già sai. Proverò a dirti quello che io stesso non so.
L’amore è un lavoro; ma è più piccolo del destino, quindi dà una fatica di sogno più strana, più slabbrata, più discontinua. Questo perché, devo supporre, ha una vocazione a superare il destino e, quindi, potenzialmente, a distruggerlo: ma se lo distruggesse – se fosse dismisura – non sarebbe appunto più amore.
L’amore fa finta, qualche volta – a qualche svolta più ardita, in cui la trama perde perplessità e acquista lucida vertigine di pienezza – di coincidere con la vita; ma non regge. La vita non lo regge – non più di tanto: perché la sua vocazione, devo inferire, è ulteriore alla vita, e la relativizza. Ma se la assumesse in sé – chissà, magari avrebbe la forza di farlo – non sarebbe più amore: sarebbe un nome magico, il più corrivo, della morte.
L’amore ride di paragrafi come quelli che sto abborracciando. Paolo di Tarso ha preso l’impensata parola greca, agape, parente lontana di ahavah, ed ha evocato dalla quiete bruciante di una lunghissima meditazione quell’inno immortale, quella musica di idee e fatti che ha decisamente il suo tono, la sua firma – così meraviglioso ed irritante doveva essere, Saulo il Piccolo, di Tarso. Ma che se la rida, l’amore. L’amore di cui parlo non è agape, non è dilectio, non è caritas, non è ahavah, non è nemmeno eros. L’amore dei miei giorni non è ancora verità, perché ha una vocazione straziante, una vocazione feroce: e niente, per il momento, gli basta. Per il momento – fa’ attenzione, Mardekucek: altrimenti, sarebbe stato il tarocco della morte – una bella giocata, ma una fra le molte, uno dei molti tarocchi. E la morte non gli basta: forse basterebbe a me, il che non è un’obiezione.
L’amore attende, ma non è paziente – perché non è, non del tutto, spirituale. Ho detto che è un lavoro: un lavoro è, anzitutto, maledizione. Poi parliamo del resto: partiamo dai fatti. I fatti che un qualunque scriba sacro conosce, anche se poi li dimentica (con sapienza più luminosa della mia), perché il finire in gloria del salmo è un’ironia di Chi ha dato il terribile impulso a pizzicare la cetra, ad alzare il braccio e la voce. L’amore non è un sentiero. Partiamo dai fatti: poi verrà il sentiero, ci sarà un sentiero, o forse non ci sarà. Fin qui mi fa sporgere la sua filosofia.
L’amore è troppo malmesso per darsi delle arie da vagabondo. Devo contestare Platone e i sufi. Sarebbe capace di darsi un tono rispettabile senza nemmeno un filo di snobismo. Ripeto, non è proprio del tutto spirituale. Non è del tutto in sé. Non è del tutto: queste metafore deliziose e terribili – il meglio che l’uomo abbia saputo, amando molto, escogitare – alla lunga lo fanno fuggire. Perché se uno è malmesso (qui l’analogia ancora funziona), ma malmesso davvero, comm’il faut, non sopporta, alla lunga, tutte queste finezze così tristi, così lineari. Hai presente i sussulti di rozzezza in un’anima stanca di patire bene? È solo una pallida immagine.
L’amore è troppo semplice e comune per essere davvero amato. Il che non significa che non sia corrisposto – lo fosse di meno, poveretto! L’amore è troppo corrisposto per essere davvero amato così com’è. E magari non vuole nemmeno essere amato così com’è – perché non è del tutto in sé, non è propriamente in sesto. Ma basta con i platonismi: l’amore è ordinario come la veglia, come il risveglio, e chi lo trova interessante farebbe bene ad andare a dormire a mezzogiorno, tanto non potrà mai combinare niente di diverso. L’amore può stancarsi – lo ripeto, tanto per intonarmi al concetto – e in questo prende le distanze dall’anima, che si illude soltanto di essere stanca. L’amore è oltre verità e illusione: sono faccende dell’anima. L’amore ama l’anima, sicuro, e quindi ama molto anche le sue faccende e le sue manie, ma è – anche – a un certo punto, almeno – stanco di manie, stanco di anima. Crocifisso tra anima e spirito, le sue sofferenze non vanno colorate di pathos umano: capiscimi, le sofferenze umane sono le sue, ma il pathos è alquanto diverso. Certe volte non sembra nemmeno soffrire con pathos: ma soffre, soffre. E io credo soffra della propria inavvertita, insospettata completezza, che è al di là di ogni superamento. Non dire mai, Mard, che l’amore comprende e supera i contrari: se fosse semplicemente così, sarebbe tutto più facile.
L’amore non è facile. Ma solo perché è un lavoro. Solo perché è quotidiano. E il quotidiano gioca un bel tiro al tempo: gli spalanca un abisso di possibilità che non saprebbe mai, lui, il devoto titano, immaginare. Ora, però, Mardekucek, voglio che mi parli di te – ho bisogno di sentirti. Parlami di qualcos’altro – anche l’amore ha i suoi limiti, la sua stravagante giustizia.

Daniele

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