Salvo ove altrimenti indicato, questo blog contiene testi originali di Adriano Ercolani e Daniele Capuano



mercoledì 19 maggio 2010

Lettera dall’Assurdistan


Caro * * *,

continua l’Apocalisse.

Decidiamo di trovarci nell’era dei candala, degli avarna, dei dalit – il che sarebbe una consolazione neanche troppo segreta, visto che uno yuga (o sotto-yuga) simile non potrebbe che preludere ad una palingenesi. Se ciò è vero, se la forma dominante è quella del senzacasta, si potrebbero riprendere in un’altra chiave le ambigue e strazianti diagnosi nietzscheane ed applicarle alle nevrosi dell’incipiente (?) età dell’Acquario. Infatti il senzacasta è l’immagine perfettamente speculare del liberato in vita: entrambi sono espulsi dalla gerarchia religiosa-sociale, sebbene, ovviamente, lo jivanmukta in modo gratuito e consapevole e il candala in modo sostanzialmente coatto. Qui probabilmente ci sono d’aiuto piuttosto la bhakti e il tantrismo che il Vedanta: nei racconti dello Yogavasistha il re che sogna di diventare senzacasta, o che lo diventa nel più vasto ma non più saldo sogno dell’esistenza, è figura di prova suprema, ma lo scardinamento dell’ordine brahmanico è solo implicito, il re ritorna re – sebbene intimamente svuotato e libero – e comunque non una lacrima di karuna cade sull’accampamento pestilenziale dei candala, immagine di irrealtà al quadrato. Nel sublime vishnuismo medievale, invece, abbiamo casi di stupenda follia devozionale, il brahmano che diventa fuoricasta per amore di una donna intoccabile o per qualche violazione – non propriamente cristica, ma più che altro da santo idiota bizantino – del dharma. Poeti sublimi, che danno qualche lume supplementare, ma non la Luce di cui abbiamo bisogno noi: in presenza di un ordinamento dharmico quei capovolgimenti erano qualcosa di enorme ma anche di regolato dalla loro stessa irregolarità, e come tali oggi improponibili. Mettiamo che oggi un uomo entri in un allevamento di polli e si metta in gabbia a subire i calcolati tormenti dell’industria avicola – sarebbe immediatamente riconosciuto, gli sarebbe diagnosticata una ‘follia aviaria’ o qualcosa di simile e le strutture psichiatriche della sua città gli offrirebbero non la vecchia detenzione borghese-totalitaria ma cure di reinserimento.


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Gli occidentali non riescono a comprendere perché il dharma dia uno statuto di paradossale realtà ai reietti, perché li riconosca non riconoscendoli. Nietzsche si illudeva di comprendere, ma non comprese: e se non ci riuscì lui, figuriamoci i teorici del razzismo imperialistico, o magari i tradizionalisti militanti di qualche generazione dopo. Un simile gesto conoscitivo-giuridico sembra, alternativamente, una grande misericordia del pensiero religioso e un delirio di crudeltà sistematica. Forse molto dipende dal fatto che i candala siamo noi, non gli avarna delle Leggi di Manu: o meglio che, pensando i candala, fatalmente noi pensiamo noi stessi. Si ripropone, ad un livello indicibilmente più profondo e complesso, la dialettica del pensiero sulla schiavitù: quando era giuridicamente e culturalmente riconosciuta come una possibilità dell’esistenza umana, si era sensibili all’aspetto qualitativo, reale della libertà; dopo la sua condanna religiosa e la sua abolizione giuridica, è stata rimossa e quindi potenziata. Eppure – e qui è l’aspetto più prezioso della faccenda – il pensiero orientato all’azione, al “che fare?”, il pensiero occidentale, non trova alcuna via, e termina nel tragico: perché è assurdo pensare alla reintroduzione della schiavitù come ad una soluzione, è assurdo lasciare le cose così come stanno, ed è assurdo appagarsi della “perpetua vigilanza democratica” come antidoto alle forme “striscianti” di illibertà del mondo contemporaneo (come se il loro essere “striscianti” non le rendesse – legge del pensiero magico, alchemico, religioso e in fondo del buon senso dei popoli – ben più “concrete” di qualunque “fatto concreto”!). Così con i candala: assurdo pensare di “rifondare” il dharma, assurdo far finta di non essere candala, assurdo pensare che il sapersi candala sia medicinale – anche perché, non siamo forse candala in rapporto ad un ordine dharmico infranto? Come sempre, all’occidente resta solo il pensiero tragico – ma un pensiero tragico che non va a sbattere contro il muro di ferro dell’ananke (contro leggi reali) è tragico solo per uno spettatore altro – è scena tragica e non pensiero tragico. La bidonville dei candala non è davvero tragica: il suo rapporto col dharma è di mera esclusione – e tuttavia è un rapporto. Le nostre città-metastasi sono ancora meno tragiche: o meglio, sono tragiche solo in rapporto ad uno spettatore futuro, imminente – e qui si capisce che Heidegger abbia pensato a un dio come all’unico possibile agente di salvezza, ed anche che il pensiero apocalittico riservi così numerose tentazioni, a partire da quella di un messia letterale o spirituale.

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Il dio profetizzato dal Danton di Büchner è il Nulla: non un dio da poco. Da due secoli siamo gli scribi (o i farisei) di questa rivelazione. Il dio invocato da Heidegger, invece, non ha ancora corpo e bocca di profeta: la saggezza del Cerchio ci suggerisce che non può non venire, la follia della Linea ci invita, forse più saggiamente, a giocarci tutto nella catastrofe, che non ha necessariamente la falsa assolutezza della Fine – anzi, ha o può avere la giusta, totalizzante misura di dissoluzione dell’Eschaton. Ma oltre a Cerchio e Linea tertium datur, ed è la Spirale, che non è né saggia né folle perché, come ogni intuizione mistica, lascia trapelare nel linguaggio sintomi ansiogeni o insipidi, o entrambe le cose (appunto): ci dice che la fine è fine di un ordine e fine di tutto, che un nuovo inizio ci sarà, ma non ci sarà se non perché già c’è, e c’è solo nella misura in cui è in me – ma non può essere in me se non è in tutti etc. etc. Insomma: il mondo è già redento, ma questo è ancora il problema, non la soluzione.

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Qualche osservazione molto piccola. Fra vent’anni i volti dei nostri contemporanei sembreranno interessanti. Carosello, che dava spasmi di disgusto a Pasolini, oggi fa tenerezza. Il cinema per noi è già una Decima Musa, rispettabile e morta, ma Kafka, Benjamin e Zolla lo consideravano una perniciosa novità affatturante dell’era delle masse. Questa non è solo una riflessione qoheletica: del resto, Qohelet è un rotolo sacro, e la sua presenza nella Bibbia lo contamina di profezia, di insaziabilità e di storia. Il fatto è che ogni generazione è all’incrocio, e i raffronti, specie se puramente morali o addirittura quantitativi, vengono pur sempre tratti dall’armadietto degli ansiolitici. Non è questione di peggioramento, di caduta, di decadenza: Esiodo, oggi, va riletto con tremenda nudità di sguardo. Manzoni dice che l’indignazione presuppone un sistema. Già Nietzsche, parlando di svalutazione, è infinitamente equivocabile: non è, come ha sostenuto con argomenti perfetti Heidegger, l’estrema efflorescenza del pensiero del valore che è la manifestazione dello spirito occidentale, dello spirito della tecnica? Ma allora, se non è decadenza e non è svalutazione dei valori, quid est? Se, in profondo, non è nemmeno dolore – perché il dolore in questo caso è sentire il nulla (ricordi Elena Bono?), ed è quindi interno, intimo al nulla, pur rappresentando sicuramente uno dei pochi resti di nobiltà e libertà che il nulla non può non concedere –, se non è nemmeno, addirittura, un’avventura dello spirito e della conoscenza – non solo, almeno, e questa eccedenza è legata all’impossibilità di scindere spirito e cultura, cielo e terra –, vuol forse dire che il niente non lascia niente, o piuttosto che il suo lasciare comunque qualcosa è il segno di tempi di nascondimento quasi perfetto, di catacombe dell’anima e dello spirito in cui l’antica dotta ignoranza della fede è sostituita da un’oscurità nuova di tipo puramente messianico?

Un saluto e un abbraccio. Posso dirti addio (a-Dio)?

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